IL COMPAGNO LILLIU, BERLINGUER E LE OSTRICHE (dove non si parla di primarie ma, in fondo, anche si)
Ne avevo già scritto, del compagno Lilliu.
Contadino sardo emigrato in terre piemontesi, operaio in fabbrica e comunista. Fu uno dei miei primi e severi maestri di politica. Fui inquadrata dalle sue mani grandi: sei borghese, compagna. Hai un dovere in più degli altri: tu le opportunità ce le hai avute per famiglia, fortuna e nascita. La militanza, per quelli come te, è pensare alle opportunità degli altri, le tue ce l’hai già. Studia, lavora e nel tempo libero fai politica. La domenica mattina, la sera. Senza chiedere niente in cambio.
Più o meno erano queste le parole che usava quando discutevamo . O meglio: io stavo zitta sentendomi un po’ in colpa, rispettando la vita agra e la cultura che non nasce sui banchi di scuola o dalle librerie di casa.
Per me, e per tanti come me, la politica è stata questo: militanza e senso del dovere impastato al senso di colpa. Impegno civile. Modo di affrontare le questioni, anche se non ci riguardavano direttamente.
Molti di noi si sono persi, hanno preso strade interrotte. Altri si ritrovano dopo tanti anni: qualcuno in cravatta, altri con le maniche arrotolate.
C’era Berlinguer: “Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.”
La passione politica ha pervaso la vita di molti. Non per professione, non per tutti, almeno.
E’ stato lo sguardo, l’impulso a prendere parte, il modo di concepire la difesa dei diritti degli altri quasi più alta e sacra della difesa dei propri. Che si esplicita quando sei genitore a scuola, abitante in un quartiere, lavoratore in una fabbrica o in un ufficio. Rappresentante nelle Istituzioni. Cittadino, semplicemente cittadino che assolve al suo compito etico. E’ politica, ci siamo detti. Esercitata nelle forme e nei modi che ritenevamo giusti.
Qualcuno di noi, io stessa da qualche anno, ad un certo punto ci siamo trovati in prima persona a prendere parte. Senza dimenticare il compagno Lilliu, Berlinguer e i compagni di strada. Anzi: pensando di interpretarli assumendoci una responsabilità pubblica.
Siamo stati convinti che il nostro corpo, etica, modo di concepire la politica fossero sufficienti almeno a testimoniare che polis vuol dire città e cosa pubblica in primo luogo. Da trattare con rispetto e senso del sacro molto piu della res privata.
Ognuno di noi viene da una storia, individuale e collettiva al contempo. Io vengo da questa: da La storia siamo noi, la canzone popolare, i canti delle mondine, il mito vero o presunto della diversità genetica e tutto quell’insieme di parole, note e pensieri che affondano nel ‘900. Anche se ne ho vissuto solo un pezzo e il mio presente è ora.
Non è l’unica storia, non è migliore di altre. È la mia e di molti di noi.
Oggi fare politica è una maschera che impedisce di parlare e di essere credibili. Rende muti e attorcigliati intorno all’idea che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato: in quello che abbiamo creduto forse, in quello che c’è sicuramente. Nella distanza siderale dalle cose. Quelle vere, quelle che battono sulla carne viva delle persone. Profondamente sbagliato per le occasioni perdute, per la mancanza di lungimiranza, per il poco coraggio, per la metastasi che è entrata in tutti i corpi sociali e, quindi, anche in quello della politica. Non solo la loro, anche la nostra. Specchio distorto e amorale.
Il tema, oggi, è come curarli questi corpi sociali malati. Quali anticorpi innestare per rigenerare un’idea di democrazia e di equità, di giustizia, etica e uguaglianza. Per rimettere al centro le opportunità di cui parlava il compagno Lilliu, lui che le aveva trovate abbandonando un’isola e trovando compagni di lavoro e di visioni del mondo. Giuste o sbagliate che fossero, rappresentavano la dignità che può riempire degnamente una vita.
Non si tratta solo di affrontare la crisi della politica. Quella è un sintomo grave di una malattia piu profonda. Si tratta di affondare le mani nella crisi di una democrazia che stenta a affrontare le questioni del proprio tempo.
Poi le ostriche, le sagre della rana, le signorine in lurex e i rimborsi kilometrici fanno il resto. Appannano, offendono, incrinano e demoliscono un’idea di democrazia. Ma anche la vita dei molti che pensano che occuparsi della polis possa riempire degnamente una vita.
Quello che amareggia, in queste storie da fine impero, è l’indignazione tardiva, la società rabbiosa che in questo paese si assolve sempre e non è mai colpevole. E permette per vent’anni la demolizione continua dei suoi fondamenti etici e civili per poi scoprirsi improvvisamente indignata e sorpresa.
Ma voi dove eravate? Noi, dove eravamo?
C’è ancora differenza tra comportamenti, modalità, onestà individuali e collettive. Ma rischia di essere esclusivamente una differenza estetica.
Il nodo sta nel fatto che la politica non può diventare un mestiere, privato di competenze, etica individuale e capacità di studio, di ascolto e di rispetto. La politica non può diventare la somma di cinismi, astuzie, aridità, amoralità e inamovibilità.
E le organizzazioni della politica – i partiti – non possono trasformarsi in agenzie interinali di consenso, fortini impenetrabili al cambiamento, occupanti arroganti di istituzioni. Una pessima politica genera una pessima ondata di anti politica, di furore cieco e di nausea collettiva. E mette in discussione l’idea stessa di democrazia.
Però, noi, dove siamo, cosa facciamo, cosa diciamo? E dove eravamo quando lo scempio si compiva sotto i nostri occhi?
Parlo di me, parlo di noi, parlo di voi. Senza assoluzione alcuna.