Alcune riflessioni su sicurezza e Immigrazione
A. è peruviana, è in Italia da tanti anni. Faceva l’ingegnere, ha lasciato il suo paese durante il tragico periodo del governo Fujimori. A Torino ha cresciuto bambini di altri con amore infinito. I suoi figli studiano all’Università in altri paesi europei. E’ una donna intelligente, sensibile, attiva nell’associazionismo. Non ha mai smesso di mettere a disposizione della società civile torinese le sue competenze intellettuali e umane.
L’ho incontrata in un sabato piovoso e triste, come i suoi occhi. Ha paura. Mi dice che sente la paura quando sale sull’autobus e gli occhi degli altri inseguono i suoi gesti convinti di vederla frugare nelle borsette a caccia di portafogli.
R. è rom bosniaco. Vive da tanti anni in una casa popolare e non ha mai detto ai suoi vicini di essere rom. E’ completamente mimetizzato, veste in giacca e cravatta, lavora in un’azienda. Ai suoi figli, che vanno a scuola come tutti i bambini, non ha mai raccontato delle loro radici rom per paura che se lo facessero scappare con i compagni e fossero oggetto di discriminazione. Vuole che i suoi figli crescano felici e che non siano trattati diversamente dagli altri.
R. sta male. Vorrebbe uscire allo scoperto e raccontare che essere rom non significa essere criminali. Ma ha paura, per i suoi figli. Mi dice che non può più vivere con il segreto delle sue radici, ma che l’idea che i suoi vicini di casa, di cui è amico, comincino a guardarlo con altri occhi lo terrorizza.
G. ha vent’anni. E’ originario della Costa d’Avorio, è bello, scurissimo e allegro. Studia lettere all’Università, vive con la famiglia nella periferia torinese, fa mille lavoretti per mantenersi e riesce sempre ad avere una borsa di studio. E’ arrivato qui a 10 anni e, complice il suo fisico atletico e la sua allegria, è pieno di amici e di ragazze. G. ha paura, perché quando sale sul tram per tornare a casa dal centro la gente si sposta e afferra le borsette. Mi dice che, lui, non può mimetizzarsi come altri immigrati perché il colore della sua pelle è troppo ovvio.
Tre storie. Ne ho scelte tre fra le tante. Raccontate a me, perché sono Assessore della Città di Torino e perché con tutte queste persone il filo del dialogo è intrecciato da anni.
Persone con cui condivido progetti, pensieri, discussioni, analisi. Le raccontano a me perché io rappresento le Istituzioni, lo Stato, la politica. E, allora, è alla politica che si chiede cosa sta succedendo, quali sono le prospettive, quale società stiamo crescendo.
La paura ha tante facce, tanti colori. Gli occhi di chi ha paura sono sempre gli stessi, da qualsiasi parte del mondo provengano: guardano in basso, per non incrociare gli sguardi degli altri. Si nascondono, per paura di provocare attenzione. Si smarriscono, perché non sanno cosa hanno fatto di sbagliato per ricevere tanta rabbia addosso.
Tutti pensiamo che per colpa di qualcuno, è la stragrande maggioranza che perde.
Ma quello che non riusciamo proprio a capire è come si faccia a non accorgersi che M, R e G – e tutti gli altri che abbassano lo sguardo – solo per il loro accento o colore sono diventati “gli altri” di cui avere paura.
E quello che non riusciamo proprio a digerire è il fatto che sarebbe più semplice dire che M, R e G – e tutti gli altri – sono quelli con cui scommettere per costruire una società meno impaurita. Perché la paura fa male a tutti, contrae i muscoli, indurisce il collo e i pensieri. Fa stare male chiunque la provi.
Se riuscissimo a fare in modo che la paura di A,R e G – e di tutti gli altri – insieme a quella di Pina, Carmelo e Rosario- e di tutti gli altri – ha la stessa innocenza di chi è vittima, e non carnefice, forse potremmo ricominciare a pensare. A connettere il cervello alle viscere. A scommettere insieme su come rendere le nostre città un po’ meno impaurite.
Il tema non è”sicurezza e immigrazione”, che porta con se sfumature e distinguo che non parlano mai al cuore e alle viscere, se non quando affrontate con la rozzezza e la semplificazione dei messaggi leghisti.
Il tema è come “fare città”, come costruire coesione e spazi di interazione. Come investire capitale sociale – prima ancora che economico – nella costruzione quotidiana di tessuti comunitari, di legami di territorio, di processi di inclusione.
Anche noi, la nostra parte politica, stiamo vergognosamente tacendo sul cono d’ombra degli invisibili, dei normali, degli ordinari. Di quelli che producono PIL, che pagano l’INPS, che accendono mutui, che studiano, che crescono, che pagano il biglietto dell’autobus. I circa 100.000 nuovi abitanti di questa città che comprano il pane sotto casa nostra, che siedono sulle stesse panchine dei parchi, che partecipano ai corsi di formazione, che fanno fatica, che hanno fame di cittadinanza. E che ogni anno partecipano alla lotteria del rinnovo del permesso di soggiorno, dove non conta chi sei o cosa fai ma solo da dove vieni e per quanto ti fermi.
Quelli di cui non si parla perché non fanno notizia, ma che hanno paura e subiscono gli sguardi e la violenza del linguaggio. Che si chiedono se la loro vita qui ha ancora senso, e cercano la rassicurazione della politica.
Le parole pesano, lasciano tracce, producono ferite che non si rimarginano.
I 30.000 ragazzi torinesi sotto i 18 anni che non hanno la cittadinanza italiana ma che si sentono torinesi e italiani, e stanno compiendo un faticoso processo di negoziazione delle loro plurime identità, possiamo permetterci siano “ponti sospesi tra due mari”, come scrive Ben Jhalloun? O non dobbiamo forse pensare a loro come ponti che collegano due mari, capaci di crescere e magari di rendere competitivo il nostro sistema locale?
Se uno dei temi su cui gli economisti si esercitano è quello dell’internazionalizzazione dei sistemi locali, cominciare a riconoscere che il mondo è a Torino ci permette di capire che forse vale la pena investire sul mondo che ci cresce accanto. Investire per crescere, e per competere con il resto del mondo. Partendo da questa popolazione giovane – grande come la città di Ivrea – che parla più lingue, che è abituata a frequentare diversi universi identitari, che è capace di reintepretare la sua posizione nel mondo perché ci è costretta tutti i giorni.
Investire nei processi di integrazione e inclusione è conveniente. Non per adesione etica, non per “buonismo”. E’ conveniente se si alza lo sguardo e si prova a pensare un po’ lungo. Se si ritiene che la politica sia anche costruzione di un progetto di società, pensare lungo e agire corto è un preciso dovere della politica.
Parlare di immigrazione porta con se’ tutta la complessità del mondo attuale: economia, globalizzazione, disparità, flussi, nuove povertà. In concreto ed in chiave locale: mercato del lavoro, accesso ai servizi, riforma del welfare, accesso alla casa, scuola e dimensione educativa, vivibilità dei territori, incontro/scontro sociale e culturale, marginalità sociale e via dicendo. Gli immigrati sono lo specchio nel quale si riflette una comunità locale. E il tema da mettere in agenda è come affrontare tutta questa complessità non “per loro” ma “per tutti”.
C’è anche il tema della sicurezza – o dell’insicurezza. Se ricominciassimo a parlare di “diritto alla legalità” terremo insieme M,R,G – e tutti gli altri – e Carmelo, Pina, Salvatore – e tutti gli altri. Vivere in una comunità locale definita da diritti e doveri, e dal rispetto della legalità in cui tutti giocano la loro parte. Anche quelli che – usando la parola sicurezza – sono costretti a mimetizzarsi come oggetto di paura.
Magari, ricominciare a parlare sui tram, prendere M.R.G e Pino, Carmela e Salvatore e ascoltarli tutti insieme, aprire le porte, uscire, discutere potrebbe aiutare. Potrebbe aiutare noi, che siamo la società politica, prima di pensare di poter aiutare noi la società civile.
Tanto altro da dire, ma questo è per iniziare…