Le mie parole per l’Alfabeto pandemico
A marzo 2020 abbiamo lanciato un progetto collettivo: l’Alfabeto pandemico. https://www.lostatodeiluoghi.com/alfabeto-pandemico/
L’idea – nata nelle notti del primo lockdown tra noi, promotori de Lo Stato dei Luoghi, nottambuli inquieti, ha coinvolto più di 1.000 persone che hanno donato le loro parole per ridisegnare, insieme, mondi possibili.
Sono parole dense, forti, tenere, tristi, drammatiche. Raccontano di solitudini, di sogni interrotti, di paure, di desiderio di vicinanza, di amicizia, di morti e di rinascite. Quell’intensità di pensiero e di interrogativi – che il COVID ha prodotto in ciascuno di noi – è il segno di quello che è successo, che sta succedendo e succederà. Raccogliendo parole, abbiamo cercato di non arrenderci al vuoto, riempiendolo di reti e relazioni tra distanti che si riconoscono.
Queste sono le tre parole che ho scritto io. Le altre 997 sono bellissime, tutte da leggere e da ricordare. E’ passato un anno. Ci siamo ancora immersi. Più stanchi, tristi, sfibrati. Attraversati da lutti e da dolore. Partendo da queste 1.000 parole, però, si può immaginare di disegnare mondi nuovi. Migliori, meno cattivi
Corpi
Sono i corpi la vera rivelazione della Pandemia. I corpi distanti, quelli troppo vicini. I corpi soli, lontani, ammassati. I corpi malati, isolati, distanti. Quelli smaterializzati che usano tutte le piattaforme per lavorare, vedersi, baciarsi. Quelli, invece, così materializzati da provocare claustrofobie sociali: tutti insieme nello stesso appartamento. Due genitori, tre o quattro figli di età diverse, al massimo uno smartphone dai Giga limitati per famiglia. Così vicini da farsi male, o da amarsi tantissimo se no è un disastro.
Oppure i Corpi che attendono di entrare nello stesso luogo – il supermercato, la farmacia – e si guardano di lontano, con una mascherina improvvisata sul viso a nascondere il sorriso o la paura.
Sono i Corpi che ci minacciano e che ci mancano. Nello stesso tempo impariamo a farne a meno, se abbiamo gli strumenti per smaterializzarci.
Perché la disuguaglianza più evidente, oggi, è tra chi abita solo lo spazio fisico e chi ha gli strumenti per abitare anche lo spazio immateriale dell’infosfera. Sono i corpi dei primi che ne usciranno a pezzi. Isolati, impoveriti, fragili. Meno uguali di prima. Più arrabbiati, più rassegnati. La faglia della diseguaglianza non è soltanto sociale, economica, di accesso alle risorse. Anche generazionale, culturale. Geografica.
A meno che dai corpi non parta la rivoluzione. Il desiderio collettivo di ridisegnare i perimetri, i confini, le distanze. L’Altro e gli Altri. Noi. Se saremo capaci di disegnare un nuovo modo di concepire lo spazio, capace di contenere corpi fisici e smaterializzati, poroso, attraversabile, aperto, connesso. Una democrazia globale dei corpi, in fondo. Uno stormo di uccelli migratori che si prende cura delle sue parti più deboli. Un corpo collettivo, un corpo di sapiens di nuovo in cammino.
Deroga
Il carrello della spesa apparentemente abbandonato sul marciapiede: “Chi ha bisogno prenda, chi può doni”. Dentro, qualche pacco di pasta e del latte a lunga conservazione.
Nei tempi dell’iper-norma, dove addirittura si definiscono le fattispecie degli affetti per decreto, lo spazio pubblico della città diventa luogo della relazione a distanza, delle reti di solidarietà, della prossimità che si fa carne e nello stesso tempo è invisibile. Una prossimità dove non ci si guarda negli occhi. Una prossimità lontana, ossimoro di questi tempi sospesi. Manifestini attaccati ai muri “chi ha bisogno di aiuto chiami qua. Vi portiamo la spesa, chiacchieriamo al telefono se vi sentite soli.”. Non c’è timbro affissioni, non c’è richiesta di occupazione suolo pubblico. Lo spazio pubblico della città in deroga, nell’epoca dell’iper-norma. Saltano le regole del ‘900 sull’uso della città pubblica, per riportare l’umano al centro delle relazioni. Come la natura si è riaffacciata nelle città della pandemia e i leprotti attraversano senza rispettare le strisce, così l’umano entra nello spazio pubblico normato e rimette al centro la relazione, in barba ai regolamenti che normano usi e tempi della città. Nel Lockdown la città di carne ha trovato il suo equilibrio per restare in piedi. Le piazze vuote e i carrelli della solidarietà che segnano lo spazio dell’assenza per ricordare che ci siamo e ci curiamo da lontano. Lo spazio pubblico come luogo di cura delle relazioni. Uno spazio sicuro, perchè si fa cura. Quando ricominceremo ad uscire, proviamo a ridisegnare le norme, prima di ridisegnare gli spazi.
Pasqua
In coda, distanti. Uno dietro l’altro. Dopo due ore mi avvicino all’ingresso, aspetto di entrare. Un ragazzo magro e sorridente, nivuro nivuro, con mascherina e guanti, chiede a chi esce se ha bisogno di aiuto. Qualcuno lo ignora, qualcuno gli da un euro. Lui sorride. Ci sorridiamo. Gli dico “take care of you”, mi risponde “You too”.
Faccio la spesa, alla cassa prima di me una signora anzianissima spinge un carrello pieno di pappa dei gatti e poco altro. La aiuto tenendo la distanza, mi dice “che Dio la benedica”. Poi esce, curva con due buste pesantissime. Esco anche io.
Il ragazzo nivuro nivuro le chiede se ha bisogno di aiuto. Lei lo guarda da dietro la mascherina “Ben gentile, che io sono vecchia. Mi accompagni fino a casa che è proprio lì?”.
Io ho comprato una colomba per il ragazzo. Gliela porgo. “Buona Pasqua”. “Grazie sorella, magari faccio a metà con questa signora”.
E si allontanano, lui giovane con due buste piene di pappa dei gatti e la colomba, lei curva a distanza di un metro che chiacchiera sorridente.
Il mondo è anche fatto degli sguardi che abbiamo il coraggio di vedere. Buona Pasqua