Generazione Balotelli: questi ragazzi faranno vincere l’Italia di domani
In questa domenica delle Palme a Torino succedevano molte cose, ovunque. Una di queste è stata Tutta Dritta – Turin Marathon: migliaia di persone di tutte le età, generi e colori affrontavano un percorso che solo a raccontarlo sento male alle gambe. Mentre osservavo la partenza mi è venuta in mente una storia. Perché la politica è fatta di storie, che danno volto e senso alle cose che succedono e a quelle che si fanno.
Marincho entra in quarta elementare a novembre inoltrato. Si siede accanto a bambini che si conoscono da una vita. La loro vita: dalla prima elementare. La classe è lo specchio della Torino di oggi: cosmopolita (e non multietnica, per il valore che hanno le parole), frequentata da piccoli cittadini del mondo, molti con cognomi complicati e nati altrove. Tutti, però, giocano negli stessi giardinetti da quando traballavano sulle gambe e usano la stessa cadenza torinese per parlare tra loro. Si fanno zero e amico per sempre. Si dividono in maschi e femmine, non in autoctoni, nativi, ricongiunti, italiani e stranieri. Quando uno di noi adulti chiede al proprio figlio “da dove viene quel tuo compagno?” ti rispondono generalmente “da casa, no?” guardandoti con sorpresa.
Marincho è arrivato dalla Bulgaria; scrive in cirillico; conosce l’inglese (gli altri bambini molto meno); fa le divisioni in colonna usando un altro metodo; saprebbe risolvere i problemi se capisse che il contadino ha dieci galline, settanta uova di cui una dozzina rotta. Si siede davanti al banco e sta zitto. I maschi, al primo intervallo in cortile, danno un calcio alla palla e gliela tirano sui piedi. Lui risponde guardandoli negli occhi e tirando di sinistro. E’ fatta. Le parole non servono, quando la sapienza sta in un tiro di tacco.
Dopo poche settimane cominciano ad arrivare anche le parole, perché non si può stare sempre zitti quando si sta con gli amici. La quarta elementare affronta il Trofeo Giocatletica della Città di Torino, al Parco Ruffini, dove vincono le classi, sommando i punteggi di tutti. Si vince insieme, non da soli. Si vince per la palestra della scuola, che con il premio viene arricchita di giochi ed attrezzi che useranno tutti. La sfida è grande, la responsabilità enorme. La concentrazione alle stelle.
Marincho si avvicina alla palla medica, la alza e fa un tiro che provoca la Ola dei compagni, l’abbraccio delle maestre, il tifo di tutti i genitori della quarta. Punteggio altissimo, la classifica fa un balzo in avanti. Ma-rin-cho! Ma-rin-cho! Marincho è un campione, è l’orgoglio dei suoi compagni, è uno di loro. Ha tirato la palla medica così lontano che non si vedeva più. Il suo nome viene pronunciato in un altro modo. Non è più il bambino atterrato su un altro pianeta ma il compagno dai muscoli possenti che ha fatto avanzare la classe. La sua classe. Il suo pianeta.
Ecco, oggi vedendo la moltitudine alla partenza in Piazza San Carlo mi è venuto in mente Marincho. Perché di storie così ognuno di noi potrebbe raccontarne tantissime. Basta avere le orecchie per ascoltarle e gli occhi per vederle. E quante storie così si consumano nella scuola pubblica, quella di tutti? Se solo la smettessimo di parlare di integrazione, degli altri, di quote e percentuali e dessimo valore alla scuola e al tempo che i bambini passano a scuola. Nella scuola pubblica non si taglia soltanto la qualità, la didattica, il numero di cattedre, gli insegnanti. Si taglia il tempo. Il tempo che serve per crescere insieme, per tirare di tacco, per giocare a settimana. Il tempo per far entrare nella scuola il mondo che sta fuori. Perché anche il tempo è apprendimento: quello che serve per diventare grandi insieme.
Perché i bambini lo sanno. Il valore si misura dalla tua capacità di correre come una lepre, di saltare la corda anche all’indietro, di conoscere le regole del gioco, di rispettare gli altri. Di mettercela tutta, con lealtà, per far vincere la tua squadra. Le parole arrivano dopo, perché prima c’è il corpo che comunica, i gesti che si condividono, le pacche sulle spalle che si danno se hai fatto un bel tiro.
Il mondo dello sport, qui a Torino, sa che sta crescendo una generazione Balotelli. Lo sa perché il 40% delle squadre di calcio iscritte ai tornesi amatoriali hanno calciatori non italiani. Perché la scuola di Basket dell’Auxilium (Auxilium School Project) mette insieme migliaia di bambini a Porta Palazzo, San Salvario, Parella. Perché le polisportive come River Mosso in via Ivrea hanno centinaia di ragazzi che fanno sport, giocano a calcio, ballano. Perché le palestre di arti marziali sono piene di ragazzini.
Sport di Borgata, la Uisp, l’AICS e tanti altri aprono loro piscine, palestre, campi di atletica, piste di ghiaccio. L’Asai organizza macchine di genitori di tutte le etnie che scarrozzano figli in giro per campi sportivi. Le Federazioni Regionali di sport sono affollate di giovani dai cognomi strani. La Junior Turin Marathon ormai da molti anni lavora con le associazioni di migranti per promuovere la corsa tra i loro figli. Di Balon Mondial abbiamo parlato. Di tantissime altre realtà parleremo. Nei parchi la domenica si gioca a calcio, a cricket, a pallavolo.
Quello che trovo più intelligente di tutta questa offerta pubblica e privata non è tanto l’aspetto sociale ed educativo, che pure è importantissimo. Trovo intelligente che molte di queste realtà, a dispetto delle parole che usa la politica, investono nei giovani della città cercando di promuovere il vivaio, l’incubatore di talenti. Perché la generazione Balotelli cresce, corre ed è brava. E ci può fare vincere. A noi, con l’Inno d’Italia e la commozione delle vittorie. E un paese che investe nei suoi talenti è più ricco e più forte. Anche alle Olimpiadi e ai Mondiali. Noi, a Torino, lo sappiamo.