27
Apr
2011
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Quello che le donne non dicono ma fanno, nella nuova Torino che cresce grazie a loro

Hakima mi travolge, mi avvolge, mi trascina. Passiamo il pomeriggio della domenica di Pasqua insieme: ha organizzato un incontro con le sue amiche in un parco di periferia e vuole discutere di politica con me. Hakima è un’attivista del PD, animatrice di un’associazione di donne italo-marocchina, lavora, ha 5 figli. Spunta a tutte le iniziative culturali, nelle biblioteche, nelle discussioni, nei corsi di arabo, in quelli di italiano. Trascina altre donne, convince le figlie, parla con tutti.

Hakima ha gli occhi che sorridono, un’energia che travolge, un foulard colorato sulla testa, una macchina grande dove infila i suoi figli e guida per la città. La trovi al mercato di Piazza Bengasi, nella Casa del Parco di Via Artom dove organizza feste di compleanno per i bambini del quartiere amici dei suoi figli, al Cecchi Point di via Cecchi se si parla di teatro, nel circolo quando si parla di libertà religiosa e democrazia.

Le amiche con cui parlo di politica nel parco sono Stefania, Mariam, la signora nonna (non so che nome ha: è un’anziana signora piemontesissima vicina di casa di Hakima) e tantissime altre. Ci sono anche i loro mariti ma il pomeriggio è tendenzialmente al femminile. Sono donne e figlie di Torino: cittadine italiane da sempre o da poco. Alcune mi chiedono come si vota, perché voteranno per la prima volta in vita loro e hanno il certificato elettorale fresco di cittadinanza.

Parliamo di Torino, di seconde generazioni che poi sono quelle belle ragazze sorridenti con l’accento torinese che parlano con noi di lavoro, di crisi, di diritti. Parliamo di com’era Via Artom prima dell’abbattimento delle torri e della riqualificazione. Anzi: me lo raccontano loro perché io sono arrivata dopo, quando moltissimo era già stato fatto. Guardiamo i bambini correre nel parco Colonnetti e ci diciamo di quanto è importante mantenerlo bello, fruibile, sicuro.

Mangiamo, perché quando c’è Hakima ad un certo punto spunta un thè caldo e zuccheroso, i corni di gazzella alle mandorle, le crepes marocchine e le pizzette che piacciono ai bambini di tutte le latitudini. In questi anni, da tanti anni, ho visto le donne al lavoro, in questa città. Donne che trascinano, organizzano, promuovono, creano, cucinano, usano il poco tempo che hanno per costruire reti, cittadinanza, relazioni, occasioni.

Ho mangiato nel pentolone i Sarmali di Aurelia e delle signore rumene e moldave, i dolci russi di Elena, la pita della nonna di Bruna, le banane fritte e il riso con il pollo delle signore nigeriane, ivoriane, senegalesi, le frittelle peruviane della signora Ines, i dolci di Minda e delle sue nipoti. Però ho mangiato anche le cartellate di Lucia, le focacce di Lucrezia e le orecchiette di Maria. Ho discusso di poesia con Esmeralda, di laicità con Hanane, di politica con Houda, di media e intercultura con Viorika, di giornalismo con Anca, di educazione e di scuola pubblica con Alina.

Con le donne di questa città ho parlato del mondo quello vero, quello che viviamo. Quello che non ha tempo di aspettare. Perché le donne di questa città costruiscono città: fanno, discutono, affrontano temi serissimi. Di solito lo fanno mettendo in mezzo al tavolo qualcosa da mangiare, come a casa quando arrivano ospiti. Molte di loro, quando si tratta di parlare in pubblico tendenzialmente stanno zitte. E allora bisogna spingerle, trascinarle, costringerle, puntare i piedi, fare i capricci per metterle davanti ad un microfono a dire la loro. Perché hanno tantissimo da dire. Sono la punta avanzata del futuro. Fanno e non dicono. Cuciono reti e relazioni, entrano nelle biblioteche, organizzano letture e concorsi letterari, scrivono poesie e racconti, raccontano storie, cantano, suonano il violino, tengono insieme, includono.

Mi piacciono, queste donne di Torino. Quando avranno il coraggio – e gli si lascerà la possibilità – di invadere la politica non ci sarà storia. Anzi, comincerà un’altra storia.

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