Cancelli chiusi o cancellate colorate? All’ombra del salice di Harry Potter saranno i piccoli a educare i grandi
La incontro mentre sto per salire in macchina: «Sei Ilda, vero? L’assessore delle cancellate?». Scende dalla bici e mi racconta che con un po’ di abitanti di Vanchiglia stava pensando di proporre qualcosa di simile dalle parti di Lungo Po o in Largo Montebello. Rimettere in sesto gli spazi, occuparsene, dipingere le panchine, piantare qualche fiore. Dare un senso collettivo a degli spazi molto usati. Le racconto delle sedie azzurre, di quelle di San Donato. Le racconto di cosa è successo alle cancellate. Le propongo di lavorarci e di mettere insieme le persone. Poi si vedrà, ma intanto si crea il terreno su cui far crescere riqualificazione.
Per chi non lo sapesse, la cancellate sono il modo con cui i bambini di Vanchiglia chiamano l’area pedonale di Via Balbo davanti alla Scuola Elementare Fontana. Sono 100 metri di strada: da un lato dei cancelli, dall’altro muri piene di scritte. Quando i bambini escono da scuola stanno lì, si rincorrono, giocano e tirano il pallone sui cancelli. E’ un’area residuale, nel nostro gergo. Aree ricavate da scampoli di città, nelle quali c’è stato anni prima un piccolo pensiero di riqualificazione ma poca progettazione.
In città ce ne sono molte: usate, frequentate, piene di funzioni e di persone. Poco curate, in generale. Spesso, luoghi di conflitti latenti: i nonni ce l’hanno con i giovani, i ragazzi con le mamme, i genitori con i padroni dei cani. Tutti con il Comune e con i Vigili che non sono lì 24 ore su 24. La richiesta è semplice: telecamere, cancelli che si chiudono ad una certa ora, presidio, controllo.
Di fronte ad una domanda semplice, la politica ha la responsabilità di dare risposte complesse. Questo vale per le questioni macro e ancora di più per quelle micro. Perché non è vero che tutto è sicurezza, allarme, emergenza. Spesso si tratta di offrire una visione semplicemente diversa, tentando di dare risposte concrete che affrontino i problemi ma senza semplificazioni che illudono, spostano i fenomeni, impoveriscono la vita urbana, aumentano la distanza tra chi si sente incluso e chi è escluso.
Nella città contemporanea lo spazio pubblico è pensato spesso come luogo in cui vengono destinate funzioni prevalenti e dove tutti sanno dove stare: gli anziani da quella parte, i bambini 0-3 nell’area gioco, i ciclisti sulle piste, gli skater, l’area cani, la piastra del calcetto. Tutti dovrebbero sapere dove stare, e se non lo fanno si chiede il ripristino delle regole e la chiusura parziale agli usi difformi. Perché ci sono target di popolazione che non hanno un posto per loro e stanno dappertutto. I giovani, per esempio, che si avvitano sulle altalene dei più piccoli e spesso le scardinano. Gli immigrati, che si siedono sulle panchine o si ritrovano la domenica nei parchi perché spesso la strada, il fuori, è lo spazio che manca dentro, gratuito e accessibile.
Lo spazio pubblico della città è, però, il luogo dell’interazione: tra generazioni, generi, culture. Più aumenta il controllo, la chiusura, la difesa dello spazio e più si perde il senso, la creatività, la cultura della relazione. Oltre a generare frustrazione in chi chiede il ripristino delle regole perché non tutto è controllabile, non tutto può essere escluso, non tutto può essere controllato. Riusciamo a rendere più forte, densa e culturalmente attraente la vita negli spazi pubblici, responsabilizzando la comunità locale nell’averne cura?
Questa è stata la domanda che ha generato in questi anni, a Torino, una serie di progettualità e di interventi. Ci abbiamo provato, con il progetto Pixel (http://www.contradatorino.org/riqualificazione-ambientale/spazi-residuali) in tre aree residuali della città. Con il Laboratorio Città Sostenibile (http://www.comune.torino.it/labcittasostenibile) e gli architetti del settore Arredo Urbano si è messa in pista la sperimentazione. I bambini e i loro insegnanti sono stati coinvolti nella progettazione degli spazi pubblici. Hanno lavorato insieme agli architetti. Per davvero. Facendo tutto quello che si dovrebbe fare: diagnosi territoriale, sopralluoghi, analisi SWOT, osservazione dei flussi, rilevazione dei bisogni, scelta delle priorità, progettazione, plastico, visualizzazione…poi tutto è stato trasformato in progetto, capitolato, gara d’appalto… e realizzato.
Più di un anno di lavoro, in cui i bambini hanno affrontato la complessità del loro spazio, quello che vivono quotidianamente. Come nell’area pedonale di Via Balbo, appena conclusa. Nel frattempo sono partiti i lavori nei giardinetti di Via Cecchi. Adesso le cancellate sono diverse. Colorate. Con panchine multicolori, una di fronte all’altra, davanti al portone della scuola: perché i nonni possano sedersi e chiacchierare mentre aspettano la campanella. Con dei cubi di cemento dove arrampicarsi che possono diventare un palco per piccoli spettacoli quando serve. Con un’aiuola verticale, vicino ai cancelli, con la santoreggia, il rosmarino e la salvia che i bambini possono curare e innaffiare. Con un albero che assomiglia al salice piangente di Harry Potter: quando crescerà ci si potrà nascondere dentro le fronde e chiacchierare. Con le terrecotte disegnate dai bambini incollate sui muri. E dei tavolini dove giocare a carte.
Quello che si impara lavorando con i bambini è che si può trovare posto per tutti: grandi, piccoli, nonni, cani, mamme, fratellini. Quando con loro si parla del quartiere, dello spazio davanti a scuola e del giardino che usano nel pomeriggio, la richiesta è di trovare spazio, di offrire soluzioni, di dare senso alla città vissuta. Vogliono attraversare la strada senza il pericolo di essere stirati da una macchina, giocare a pallone senza inciampare in una cacca di cane, sedersi su una panchina guardandosi in faccia per chiacchierare. Vogliono che le mamme possano sedersi mentre loro giocano, che i fratelli grandi possano baciarsi sulle panchine e non sulle altalene. La loro città ha uno sguardo lungo, anche se è ristretta al loro orizzonte. Chiedono agli adulti di stare alle regole. Si inventano slogan fantastici: “I veri duri non scrivono sui muri”, “Una salvietta nel taschino una cacca nel cestino”. I bambini educano i grandi, se gli si lascia la possibilità di farlo.
Sono tante le aree residuali della città: le abbiamo censite tutte. Ci vogliono alcuni ingredienti: qualche risorsa economica – senza esagerare, però. Dei tecnici e dei funzionari appassionati, che si incaponiscano nel trovare un albero come quello di Harry Potter perché non vogliono deludere i bambini. Degli adulti disponibili: gli insegnanti, i rappresentanti delle istituzioni, i genitori, i nonni, i vicini di casa. Del tempo: perché i bambini devono imparare che ci vuole tempo per progettare, realizzare, concludere. Una comunità locale che rispetta il loro lavoro e non lo distrugge usandolo male. A Barriera di Milano – con Urban – se ne faranno un po’, di progetti così.
Poi scopriremo se è stato più saggio colorare le cancellate o chiudere i cancelli. Per il momento, se passate di lì, vedrete ragazzini stravaccati sui cubi, anziani seduti all’ombra con le borse della spesa, bambini che saltano da un quadrato colorato all’altro per terra. Ci sono anche un po’ di bottiglie di birra che qualche fratello maggiore lascia la sera. Piano piano, se si insiste, forse si tufferanno nel cestino lì accanto. E forse la signora con il cane si renderà conto che sporcare un quadrato colorato è offendere una comunità: quella che vuole una città per tutti, anche per il suo cane.