In Piazza s’Impara, non solo l’italiano: come ai tempi della Rai in bianco e nero, quando gli emigranti eravamo noi
Vi ricordate il maestro Manzi? Se siete giovani chiedete ai vostri genitori o ai vostri nonni di raccontarvi la scuola di italiano via cavo nell’Italia analfabeta del boom economico. Si era agli esordi della televisione, nel pieno delle migrazioni interne e dei processi di urbanizzazione, nel vortice di un’Italia affannata a rispondere alla modernità portandosi dietro milioni di italiani non scolarizzati, divisi dall’uso dei dialetti che impedivano la comunicazione, in difficoltà nello scrivere il proprio nome o fare di conto. Era il 1959 quando cominciò “Non è mai troppo tardi”, un programma della RAI in bianco e nero concepito come strumento di ausilio nella lotta all’analfabetismo. Il Maestro Manzi, pedagogo e insegnante nelle carceri, riproduceva in televisione delle lezioni di scuola primaria davanti a classi composte da adulti, appunto analfabeti.
Durò fino al 1968: dieci anni in cui successero tantissime cose. Per esempio l’introduzione dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni, la nascita delle 150 ore per adulti, l’inizio del tempo pieno nelle elementari. Questo cominciò proprio a Torino, alle Vallette, dove bambini provenienti da tutte le regioni d’Italia impararono la lingua italiana grazie al lavoro e all’impegno, inizialmente volontario, dei loro maestri. Erano gli anni di Don Milani e delle spinte per una scuola pubblica, democratica e per tutti: oggi viene quasi malinconia e un po’ di rabbia a ricordarlo nell’era Gelmini.
Comunque il maestro Manzi fu un mito dell’Italia che si apriva alla modernità. Qualche anno fa, osservando le competenze linguistiche degli immigrati adulti, a me, Ilaria e Stefania – che lavoravamo a Porta Palazzo nel progetto The Gate – venne in mente “non è mai troppo tardi”. Moltissimi immigrati acquisiscono una conoscenza dell’italiano necessaria per vivere e muoversi nella città, per lavorare e avere relazioni con il contesto. Ma è una lingua che non si evolve: molti pensano di essere troppo vecchi per andare a scuola, per fare i corsi di italiano. Caricano sulle spalle dei figli – bambini bilingui fin dalla nascita – la responsabilità di affrontare la complessità delle relazioni con la burocrazia, con gli insegnanti, con il medico, semplicemente perché pensano che per loro sia, appunto, tardi.
Per cui ogni tanto capitano situazioni paradossali, come quel bambino cinese di 7 anni che compilò il modulo per la residenza alla zia e alla voce “coniugata” scrisse sì: con Pigaciù personaggio dei cartoni. Perché è vero che parlava italiano meglio della sua parente, ma a 7 anni la parola coniugata è piuttosto astratta e immaginare la zia sposata con un manga giapponese deve essergli sembrato irresistibile. Il fatto è che il fidanzato della zia, quando si è trattato di sposarsi davvero, non la prese benissimo. E il funzionario dell’Anagrafe si strappò i capelli dalla disperazione per risolvere la questione. Difficile divorziare da Pigaciù, sapete.
Osservando tutto questo, ci venne in mente che potevamo fare una scuola in piazza: banchi, sedie, lavagne, pillole di italiano utile, assaggi di complessità linguistica che facessero venire la voglia e la spinta a frequentare i corsi, i CTP e prendere la licenza media. Cominciò così “In Piazza s’Impara” che domani inaugura la sua sesta edizione. In piazza della Repubblica, a Porta Pila, tutte le domeniche mattina si apre la scuola di lingue. Dalle 10 alle 13. Sotto la tettoia dei Casalinghi. Perché negli anni l’idea si è nutrita delle sollecitazioni di tanti. Adesso, oltre all’italiano, si insegna il cinese, l’arabo, il rumeno, lo spagnolo. L’anno scorso – grazie alla collaborazione con Casa Puglia – si è insegnato il pugliese. Poi si raccontano i musei della città, si offrono visite guidate, si mescolano le parole, si generano gruppi di poesia, di letteratura, di canti popolari.
Ogni domenica passano e si fermano centinaia di persone in un mescolamento straordinario di codici linguistici e letterari. C’è Renato – rom bosniaco – che viene dalle Vallette ad imparare il cinese perché era il suo sogno. C’è Carlo, napoletano, che impara l’arabo e traduce poesie in tante lingue. C’è Daniela – insegnante rumena – che insegna davanti ad una classe di italiani, marocchini e figli di rumeni che vogliono imparare la lingua dei genitori. Ci sono gli insegnanti: giovani ragazzi della facoltà di scienze della formazione che a Porta Pila fanno il tirocinio formativo. Ci son le associazioni culturali che si danno appuntamento e ogni domenica fanno cose diverse.
Ci sono dei gazebo, un po’ di sedie e qualche lavagna. Qualche thermos di thè alla menta e caffè. Non ci vuole molto di più: per la sesta volta domani si ricomincia. Veniteci, fermatevi, ascoltate. Non è mai troppo tardi, anche per imparare dagli altri. E considerate quanto sia distante il maestro Manzi, la RAI in bianco e nero, la scuola pubblica e “In Piazza si Impara” dai test di italiano farlocchi e punitivi che i cattivisti hanno introdotto non per includere, ma per escludere e bocciare. Due modelli, davvero, divergenti. Del tutto divergenti.