Io scelgo il numero 1: Torino e le sue potenze.
La città e le tante città che ci stanno dentro, come delle Matrioske stratificate di cui si tende a vederne solo un pezzo.
Torino è cambiata. Di questo cambiamento – evidente e incontestabile – si rischia però di farne una retorica: perché ancora si parla di lei come se fosse una vedova che, dopo un periodo di lutto, ha deciso di tirarsi su, di mettersi un velo di trucco e di far vedere che è ancora viva, che è ancora piacente, che può ancora farcela. Ma dentro di sè matura il senso della sconfitta e della fatica.
Perché una parte di Torino è afflitta dalla “sindrome di vedovanza”, dove tutto è eccellenza scippata, e si continua a navigare nel sentimento ambivalente della nostalgia e dell’ambizione, delle identità perdute e delle identità da ricostruire.
O meglio: questa è Torino rappresentata da una parte della sua classe dirigente, da molti dei suoi giornali, dalle molte discussioni mediatiche.
Torino è cambiata: sfogliando le matrioske se ne vedono i segni. Se ne riconoscono gli strati.
Io vi vorrei parlare delle matrioske che non si vedono, quelle che stanno dentro.
Quelle che esprimono, potente e disordinata, la vitalità straordinaria di una città plurale.
La città che Domenico Carpanini descriveva, più di 10 anni fa, come una “città dalle identità precarie, dove ciascuno coltiva la nostalgia del ritorno”, in questi anni è diventata una città dalle identità plurali, dove ci si riconosce di Torino in tanti modi diversi.
E’ più facile vederlo se si viene da fuori: si respira un’aria cosmopolita, ordinata, seria. Accogliente e competente. Questo è quello che mi ha raccontato un giornalista egiziano cresciuto a Londra che cercava indizi di multiculturalità. Appena sceso dal treno in una città che non aveva mai visto.
E’ quello che raccontano i ragazzi di Torino arrivati da fuori: si respira appartenenza e rispetto, da queste parti. Ci sono, ancora, delle reti che ti sostengono se stai per affondare.
Per conoscere questa città bisogna posare l’orecchio a terra, come i pellerossa che cercano le tracce nella prateria. Bisogna ascoltare, girare a piedi, annusare le persone. Entrare nei cortili, discutere con gli abitanti dell’ATC, fermarsi sul pixel, sul dettaglio, sull’angolo di via.
E’ quella vitalità che si annusa a Porta Palazzo, nelle strade di San Salvario, nei ragazzi di Falchera, nel mercato di Piazza Foroni, nei giovani creativi, nei figli degli immigrati, nei nuovi professionisti che respirano atmosfera e la scelgono come luogo in cui vivere.
La lista è lunga: i luoghi vitali sono tantissimi. Qui dietro ne ho messi alcuni, ma altrettanti potrebbero esserci.
Quella vitalità che rende possibile macinare problemi, conflitti, fatiche, nuove povertà, eccellenze internazionali, buone pratiche, eventi straordinari come le Olimpiadi.
Torino ha questo di straordinario: la capacità di affrontare problemi, anche quelli difficili e sgradevoli, senza usare le taniche di benzina del conflitto che produce consenso, ma usando la lungimiranza, la pragmaticità e la responsabilità di trovare soluzioni e dare risposte.
Questo è il modello Torinese da esportare in questo Nord padanizzato: dare risposte vere a problemi veri, senza cercare scorciatoie o facile consenso sulla pelle delle persone. Siano esse vecchi o nuovi torinesi.
E’ quella lucidità non dogmatica ma con una forte bussola etica che permette di mettere insieme, intorno alla tavola, tutti quelli che possono aiutare a risolvere i problemi.
In questo Torino è straordinaria: pragmatica, burbera, poco dogmatica. Così poco dogmatica che spesso, risolti i problemi, ci si dimentica di raccontare che cosa è successo. Anche perché c’è subito qualcosa d’altro da affrontare.
Si diventa torinesi in fretta, malgrado la fatica ad entrare nei suoi codici. Ad un certo punto ci si rende conto che si diventa di Torino. Perché si può essere di Torino in tanti modi diversi.
Perché ci sono le città nascoste, quelle vitali e creative, quelle che hanno in mano il futuro perché non hanno un passato da difendere ma solo da conoscere e rispettare, ed hanno la straordinaria energia di costruire futuro.
Nelle città nascoste, nei cortili di periferia, tra le nuove generazioni c’è una vita carsica, potente, forte nelle sue contraddizioni e nel suo essere dissonante rispetto a ciò che si vede. C’è fatica, scontro, creatività e sopravvivenza. C’è la capacità di adattarsi al cambiamento innovando il modo con cui si affrontano i problemi.
Non è detto che tutto questo produca “progresso”: dipende dalla capacità di lettura che ne daranno le sue classi dirigenti, dalla loro/nostra capacità di mettere in gioco etica, buona politica, buone idee collettive, senso condiviso del futuro.
E’ una bella scommessa, comunque l’unica che abbiamo tra le mani.
Perché gli anni prossimi saranno difficili, e noi abbiamo la responsabilità di costruire futuro e liberare energie, investire nella mobilità sociale, nel cosmopolitismo, nell’etica della responsabilità come dispositivo generoso di costruire opportunità.