14
Apr
2012
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I comunisti italiani e i sentimenti.

Riflettevo sull’idiozia detta ieri dalla Santanchè: Nilde Iotti amante di Togliatti. Non commento neppure il sacrilegio rozzo di una simile affermazione: Nilde Iotti è nel Pantheon della Repubblica Italiana e della sua storia democratica. Punto.

Quello che mi faceva riflettere è invece l’ignoranza siderale dell’antropologia dei comunisti italiani, cresciuti in una filosofia della storia e dell’organizzazione che semplicemente escludeva, se non espelleva talvolta in modo spietato, l’irrompere dei sentimenti e dell’individualità nella vita collettiva e politica.

I comunisti erano bigotti e moralisti. Lo dico con familiare rispetto: sono impastata di quella storia e un bel po’ di cellule del mio DNA etico e politico vengono da lì. Mitigate, per fortuna, da altre cellule un po’ più libertarie che crescendo mi hanno reso un po’ meno rigida. L’individuo è debole e la sua debolezza può incrinare l’organizzazione, la quale ha comunque supremazia sui singoli.

Ero davvero ragazzina quando mi iscrissi alla FGCI sul finire degli anni ’70. Prima della mia famiglia ad avere una tessera in tasca, seguii un impulso che ancora oggi mi sta nella pelle. Quell’impulso che Edgar Morin chiama “la dimensione dannata della politica, che ti costringe a stare in mezzo, tra gli uomini e le donne, con uno sguardo politico sul mondo”.

Mentre nelle grandi città infuriavano gli anni 70 in tutta la loro miseria e scuotimenti sociali, io iniziavo la mia militanza in una sezione del PCI di provincia, vagamente lambita dalle tensioni con la sinistra extra-parlamentare e con il trucido degenerare degli anni di piombo.

Ero giovanissima, nemmeno 14enne, e sono stata cresciuta dai vecchi compagni comunisti, bigotti e moralisti. Quelli che la domenica mattina mi mettevano le copie dell’Unità in mano, che il giovedì sera facevano lezioni di sindacato e storia operaia e guai a non esserci.

Ci litigavo a morte, perché non sono mai stata ortodossa e li trovavo testoni come pietre. Lo erano davvero, ma erano anche straordinariamente pazienti a smussare gli angoli, a costringermi ad argomentare, a motivare il dissenso. Una bella scuola, lo ammetto. Hanno avuto la pazienza di farmi crescere e l’affetto burbero che si riserva ai cuccioli impetuosi.

Contemporaneamente leggevo, studiavo, cercavo di capire. Prendevo dagli scaffali della sezione Labriola, Lenin. Leggevo le lettere di Amendola, gli scritti di Napolitano degli anni ’60. Usavo Gramsci per studiare l’Italia dei Comuni e la Firenze di Dante: frequentavo un Liceo piuttosto libertario e i professori me lo facevano fare. In quegli anni l’unica anarchia che mi permettevo era sulle letture: Bakunin, Trozki, Marcuse, Sartre, Malraux, Orwell.  Adorno e Ingrao. Ortodossa non lo sono mai stata e sono sempre stata attratta dagli attraversamenti oltre- confine, almeno intellettuali. Ho persino letto Ezra Pound e Céline, passando per Malaparte e Testori.

Quando morì Giorgio Amendola e due giorni dopo sua moglie Germaine, rimasi folgorata da un articolo dell’Unità “quando la parola lotta cessa di essere riferita soltanto alla politica per diventare comune concezione del mondo. Vogliamo ricordarli così, Giorgio e Germaine, al suono di una fisarmonica come in un film di Renè Clair”. 

Lo ricordo a memoria, lo copiai sul diario, cominciai la mia ricerca della comune concezione del mondo che non è riferita solo alla politica. Io, a quell’età, non sognavo il Principe Azzurro.

Ora, ammetto anche che ho preso alla lettera molte cose che leggevo e so bene che non erano tutti così i miei compagni della FGCI. Andavano a ballare, pomiciavano, cazzeggiavano.  Si divertivano più di quanto non facessi io in quegli anni, quando venivo presa in giro persino da mia sorella minore, che mi dava della bacchettona e della figgicciotta intollerabile.

Io però avevo il dito di mio nonno sulla fronte che, quando seppe della mia iscrizione alla FGCI, mi disse “ricorda, se vuoi fare politica devi essere il migliore operaio, il migliore studente. Che non si abbia a dire che lo fai per comodo o per ottenere privilegi”. Un dito sulla fronte di quel genere non te lo togli facilmente anche quando la vita diventa un po’ meno schematica. E, poi, avevo il compagno Lilliu, operaio sardo emigrato in terre piemontesi, che mi diceva che siccome ero borghese avevo il dovere di dare ancora di più di qualsiasi altro. Il nonno e Lilliu: provate voi a non sentirvi in colpa tutte le volte che desiderate distrarvi e cazzeggiare.

Poi sono cresciuta, sono andata via, ho studiato altrove,  ho cambiato molte città, ho cominciato a lavorare, la vita è proseguita. Il mio PCI è stato quello di Berlinguer, delle marce per la pace, delle manifestazioni contro i missili Cruise e il nucleare. Si andava in pulmann e molti pomiciavano nelle ultime file. Le donne dell’UDI palavano di personale e di politico, il vento del cambiamento irrompeva anche nella rigida morale comunista. Poi è’ caduto il muro, c’è stata la Bolognina e poi tutto quello che sappiamo bene e non è ancora finito.  Mi sono rimasti il dito sulla fronte, il compagno Lilliu e l’idea che un progetto politico è più importante dei destini individuali. Ma questa è un’altra storia.

Però il rapporto dei comunisti con i sentimenti ce l’ho ben presente.

I sentimenti rendono deboli, la debolezza nuoce al partito. Il partito è più importante dei singoli. Essere i migliori operai significa non mettere mai in imbarazzo il partito. Essere irreprensibili anche sul piano affettivo significa non lasciare aperto il fianco alle critiche che danneggiano l’organizzazione. E’ il Sartre di Morti senza tomba, è la critica irruenta che la sinistra extra-parlamentare ha sempre fatto al PCI.  E’ la spietatezza che sacrificava le storie individuali alla crescita collettiva. E’ l’odio per il culto della personalità e  per la supremazia dell’individualismo borghese. E’ stata   l’acriticità verso  i dirigenti di partito che sanno sempre cosa è giusto e danno la linea. E’ stata anche la teoria della doppia morale, il rigore che sconfina nel cinismo, la durezza nell’espellere gli inadatti o i critici.

Ora, sono una signora di mezza età e ho imparato a rielaborare le cellule del DNA senza dogmatismi. Luciana Castellina – donna bellissima -una volta raccontò che tra Giorgio e Germaine le cose non stavano proprio così, ma io mi tappai le orecchie perché li voglio ricordare come in un film di Renè Clair. 

Noi abbiamo immensamente amato Nilde Iotti  ma  la sua vita non è stata facile allora, mentre la viveva. Perché i vecchi la stimavano ma non le hanno mai perdonato fino in fondo di essere stata su quell’ascensore di Montecitorio, giovanissima costituente, e aver fatto innamorare il Migliore.  Perché erano impastati del pregiudizio per cui a Eva non si perdonerà mai di aver sporto la mela ad Adamo. Ed è dagli inizi della storia del mondo che nessuno ha mai chiesto  ad  Adamo  perchè si è mangiato quella dannatissima mela. Il Migliore con la sua debolezza umanissima per essersi innamorato di una giovane partigiana emiliana, colta e integerrima ha rischiato di mettere in imbarazzo il partito.

L’anticomunismo viscerale che ancora oggi  emerge sta anche in questo: nel non capire e detestare profondamente la dura e integerrima supremazia del collettivo sugli individui. Quella diversità di cui parlava Berlinguer senza sapere, purtroppo, che non si trasmette per via genetica. Almeno la diversità sul piano etico, che se un po’ mitigata da un umanesimo moderno non sarebbe una brutta cosa.

Possiamo parlarne, perché è storia. Chi l’ha vissuta anche solo di striscio  la capisce. Gli altri no. Molti la rispettano, alcuni ci fanno i conti, molti la rimuovono. Tantissimi dicono fregnacce.

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