Il panda non lo voglio fare. Mia intervista a Left sulle quote rosa
Ilda Curti, assessore di Torino, sulle quote rosa: «Se è una forzatura per il cambiamento, va bene. Ma se rappresenta il politically correct, no grazie»
Ilda Curti è assessore di Torino dal 2006. Riconfermata dal sindaco Piero Fassino ha la delega per le Politiche urbanistiche e di integrazione territoriale e fa parte di una giunta paritaria scaturita dalle elezioni amministrative del 2011. Come Torino, anche Cagliari, Milano, Bologna e Napoli hanno attuato una democrazia paritaria.
Assessore Curti, nel 2011 sono entrate molte donne nelle giunte. Perché a livello locale è più facile rispetto al quadro nazionale?
È vero ma continua a stupirmi che faccia notizia. Le donne sanno guidare un autobus, fare le cardiochirurghe, amministrare la giustizia. Soltanto la politica, e in particolare quella italiana, continua a ritagliare per loro ruoli “adatti”: quelli con poche risorse, poco potere e molto lavoro. Le cose, lentamente, cambiano e nelle amministrazioni locali ci sono più donne. Molte con incarichi pesanti, tecnici. Perché no? Le donne studiano, sanno, conoscono. Sanno lavorare insieme, a dispetto degli stereotipi che le descrivono come “prime donne”, hanno attitudini collaborative. Senza generalizzare ed enfatizzare la specificità di genere, lavorare con le donne a me stimola creatività ed energie. Inoltre il livello locale è sempre stato più permeabile ai cambiamenti: è più vicino, prossimo. Il rapporto diretto, concreto e quotidiano con la vita della città, con le decisioni da prendere e con i bisogni che emergono rende più osmotico il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
Come giudica lo strumento delle quote rosa?
Ho passato una vita da militante, donna e contraria alle quote. Ho sempre provato fastidio per un tema che mi sembrava nascondesse protezionismo, vittimismo, riserva per animali in via d’estinzione, qualche volta alibi per mandare avanti anche chi non se lo meritava fino in fondo. Lo spazio non si concede ma si prende attraverso le cose che si fanno, si pensano e si dicono. Oggi ho una posizione più sfumata e meno netta. La mia generazione deve alle sorelle maggiori e alle madri la battaglia per l’affermazione delle pari opportunità, dei diritti e dell’emancipazione. Sono le nostre madri che non potevano accedere ai concorsi in magistratura, nella polizia di Stato o ad altre professioni che si pensavano maschili. Noi siamo cresciute con l’idea che studiare, essere brave, impegnarsi sarebbe stato sufficiente per avere in mano il mondo. E la fregatura non l’abbiamo capita subito. Le donne sono spesso più brave, ci mettono tigna per allenarsi ma sono le gare che non funzionano. Se, a fatica, la società è lentamente cambiata, la politica molto meno.
Il problema quindi è della politica?
Il tema è come la politica seleziona la classe dirigente, quale peso dà al merito. Le quote come rappresentazione statistica di un target di popolazione sono umilianti e dicono poco. Se, invece, sono una forzatura per far scattare la scintilla del cambiamento, allora parliamone. Siccome non basta il lento e talvolta ipocrita modo di cooptare figurine nell’album della rappresentanza (la donna, l’operaio, l’imprenditore, il giovane…) allora forziamo, anche con le quote, e apriamo le porte dei partiti alle persone, non ai target di popolazione. Se invece le quote rappresentano il politically correct di un sistema che non sa cambiare se stesso, no grazie. Non ho voglia di fare il panda.
In un intervento in Rete lei scrive dei rapporti dei comunisti italiani con i sentimenti e prende le parti di Nilde Iotti. Le donne oggi stanno fuori della politica perché pensano che sia una cosa fredda?
Ci sono molte risposte possibili. Intanto c’è una dimensione determinante nel modo con cui le donne fanno politica: il tempo. Quello della politica spesso non è compatibile con il tempo della vita. Si ha la sensazione di perderlo, il tempo. Eppure le donne sono impegnate in organizzazioni sociali, culturali, civili. Sono parte determinante di quella nebulosa che chiamiamo, in modo semplificante, società civile. C’è un problema nella relazione con il potere, nella fatica di affermarsi senza dover necessariamente essere fedeli, conformi, adatti. Vale per le donne, ma non solo. Il problema ce l’ha la politica, non le donne. Perché rinuncia al 50 per cento di potenziali talenti ed energie che possono servire a governare il futuro.