L’ingegner Rachid, Hafid e la filosofia
Rachid si è laureato oggi in ingegneria civile.
I portici della citta, e tutti noi con loro, sono abituati a vedere lui e i suoi fratelli. Simpatici, buffi, un po’ paraculi. Intelligenti e scanzonati vendono accendini, braccialettini di cotone, sciarpe pashmina-finta che Abdul mi vende a dispetto dei Santi raccontandomi di improbabili artigiani marocchini che le producono a mano.
Rachid è il primo che si laurea. Ha lo sguardo gentile e gli occhi che ridono. Con lui, il più giovane dei tre fratelli, succede di prendere un caffè in un bar di Via Po parlando di cittadinanza, di economia, di società.
Oggi la laurea di Rachid è finita sul giornali e con l’orgoglio bugianen delle cose ben fatte eravamo tutti contenti. Qualcuno ha commentato che celebriamo solo loro, i tre fratelli che tutti conoscono, mentre altri non finiscono sui giornali e fanno magari più fatica ancora.
Vorrei spiegare perchè, invece, la laurea di Rachid è bello che finisca in homepage delle pagine nazionali.
Per farlo devo raccontare di Hafid.
Era il 94-95, io ero appena arrivata a Torino dal mio girovagare nel mondo. Un giorno – durante una festa dell’Unita in un parco pubblico – ho cominciato a chiacchierare con dei ragazzini sui 12 anni, tre o quattro. Aziz, Noureddine, Mustafà, un altro Rachid. E, poi, Hafid, appunto. Erano nel “ramo spugnette e accendini”, mi disse Noureddine. Erano qui da soli, con qualche zio o parente. Giravano per strada come fantasmi. Erano tutti di Kourigba, Marocco. Stessa classe di scuola: i maschi arrivavano in Italia con parenti, per lavorare. Erano tutti fratelli maggiori e il loro destino era tirare la carretta per gli altri, rimasti a casa. Clandestini, anche se non era ancora reato. Piccoli con una vita che gli stava larga, da quanto era adulta.
Per qualche anno sono stata la loro zia grande. Non mi occupavo ancora di immigrazione. Non sapevo come funzionava. Ho cominciato a vedere le cose con i loro occhi. Non riuscivo a sopportare di vederli girare come fantasmi.
Per anni, di sabato, venivano a casa: doccia, lavaggio vestiti, ramanzina a tutti se sgarravano. Con loro sono salita per la prima volta sulla Mole. Prima volta per me e per loro. Andavamo al cinema, nei musei. Con loro ho scoperto la città, che loro conoscevano più di me. Ci sono stati momenti drammatici, tristi e difficili. Altri invece erano pieni di normalità: una zia che cresce dei nipoti. Mangiavamo insieme e poi li riportavo a casa, alla loro vita che normale non era. Di sabato, di nascosto dai padri-zii, telefonavano alle madri da casa mia. Si davano appuntamento: le madri raggiungevano i telefoni, loro aspettavano il sabato. Piangevano, parlavano in arabo e quando buttavano giù la cornetta li abbracciavo. Perchè le madri erano lontane e avevano bisogno del calore di una carezza, di un abbraccio, di un sorriso. Erano ragazzini. Piccoli.
Con le madri ci scambiavamo regali in lontananza: io facevo pacchetti con foulard, loro mi mandavano vestiti bellissimi da Sherazade cuciti da loro. Volevo sapessero che dall’altra parte del mare c’era una donna che si prendeva cura dei loro cuccioli. Pensavo che avrei voluto saperlo, quando fossi stata madre.
Nel 95 hanno tumultuosamente preso tutti il permesso di soggiorno con la sanatoria del governo Dini. Hanno cominciato ad andare a scuola. Ho incontrato i loro padri-zii per convincerli a dare futuro a quei figli perduti e randagi. Lo hanno fatto. Si sono più o meno sistemati: chi lavora in fabbrica, chi è elettricista. Adesso sono uomini. Hanno famiglia e figli. Se ci incontriamo per strada ci abbracciamo. Mi chiamano zia, io gli scompiglio ancora i capelli.
Hafid, del gruppo, era l’intellettuale. Un cuore ed una mente preziosi. Per imparare l’italiano si era comprato al Balon un Corano con la traduzione italiana a fronte. Aveva un linguaggio ricco, sofisticato. Il sabato, a casa mia, prendeva in prestito libri e me li riportava il sabato successivo, letti. Ho delle sue lettere meravigliose, di quella volta che andò a Roma ospite di mia sorella e finalmente poté vedere la Cappella Sistina che sognava da una vita.
Hafid era speciale, serio. Adulto e bambino. Era quello che faceva più fatica perchè non era allegro ma profondissimo e contemplativo. Tormentato come un adolescente intellettuale, costretto ad una materialità della vita che fa male.
Hafid ha studiato, preso la licenza media. Per anni non è tornato in Marocco. Studiava, lavorava. Finalmente, in una maledetta estate di qualche anno fa, ha riempito la sua macchina di regali ed è partito per tornare a casa.
La sua vita è finita in una curva di una qualche strada in Spagna, vicino a Gibilterra. La sua vita preziosa, tormentata, seria e accidentata.
È stato Abdul a raccontarmelo, qualche settimana dopo. Abdul, fratello dell’ingegner Rachid. Abdul di Kourigba, anche lui arrivato qui con gli altri ragazzini, anche lui nel ramo “spugnette ed accendini”.
Oggi celebrare la laurea di Rachid vuol dire rendere onore a quelle storie, a quelle torme di ragazzini che arrivavano soli, piccoli, spersi. In questa citta hanno incontrato tanti zii e zie. Ce l’hanno fatta, in molti.
Hafid no. La sua vita è finita quella maledetta estate.
Oggi, come spesso mi capita, ho pensato a lui e a come sarebbe diventato questo mio nipote, tormentato come un intellettuale e dolce come il miele.
Avrebbe voluto studiare filosofia.
Non c’è niente di piu struggente e inutile del sognare una laurea in filosofia quando si è nel ramo spugnette ed accendini.
Quando i sogni finiscono dietro una curva di una strada, in Spagna. Andando verso casa dopo tanti anni.