L’altra faccia della memoria: i Muri, gli spaccini e il buio
..ricordando Abdellah Doumi, morto nel Po a 24 anni nel 1997.
I Murazzi fanno parlare di se’: luogo simbolico dove si scontrano immaginari e visioni a tinte forti.
Nei luoghi si stratificano le storie, individuali e collettive: quelle sociali, generazionali, culturali, politiche. Si tende ad immaginare il disegno del futuro cercando di riprendere quei fili che appartengono a ciascuno, edulcorando o amplificandone la complessità a seconda delle lenti che si indossano per guardare e ricordare.
Le città e i loro luoghi sono invece prismi complessi e sfaccettati ed è sbagliato affrontarli vedendone solo alcune, di facce del prisma. Si rischiano copie malfatte di passato o visioni artificiali che non hanno genius loci.
Per disegnare il futuro – e i Murazzi ne hanno bisogno – c’è bisogno di tempo, germi e innesti di innovazione, disponibilità a modificare il proprio immaginario e quello collettivo, progettualità pubblica che consenta ai contemporanei di occupare i luoghi e farne qualcosa di nuovo e inedito. Diverso rispetto al passato, semplicemente perché diversi saranno gli orizzonti sociali e culturali in cui nascono le cose. Almeno, ci si prova.
La sabbia, che tanto fa discutere, ha questo scopo: un uso temporaneo e non definitivo per riattivare immaginazione e idee. Una sorta di tempo regalato alla temporaneità per immaginare e progettare il definitivo che sarà.
Tuttavia nel dibattito sul futuro dei Murazzi ritorna, prepotentemente, quello che sono stati negli ultimi scampoli dello scorso millennio. Creativi, underground, meticci, liberi, trasgressivi. Illegali, pericolosi, bui, cattivi. Si scontrano visioni quando invece bisogna intrecciarle, perché sono tutte vere. E, soprattutto, bisogna raccontarle e poi abbandonarle per dare l’opportunità a chi c’è adesso di reinventarsi una storia.
Io vorrei ricordare un pezzo di quella storia, perché la memoria si faccia plurale ed articolata e non si dimentichi nulla. Altrimenti si rischia una memoria selettiva che non aiuta a progettare il futuro.
In quello scampolo di fine millennio c’erano sotterranei fisici e sociali che collegavano un posto all’altro: i Muri e Porta Palazzo.
Ai Murazzi c’era la notte: libera, dura, creativa, trasgressiva. Accoglievano generazioni che si stavano scongelando al rigido ritmare della fabbrica e dei tempi divisi. Facevano incontrare differenti, mischiare classi sociali, linguaggi creativi, germi di libertà e spontaneità.
A Porta Palazzo c’era il giorno, pieno di vita colori e fatiche.
Apparentemente due mondi distanti.
Però negli angoli bui di Porta Palazzo, bui anche di giorno e con il sole, c’erano le braccia che servivano la notte dei Murazzi.
Per un bel po’ di anni c’è stato un esercito di ragazzini che dormiva – di giorno – assiepato sui materassi umidi delle soffitte di Corso Giulio, oppure in automobili rugginose e vecchie.
Ragazzini di 12, 13 anni.
Io, noi, ci occupavamo di loro o almeno cercavamo di farlo. Noi non frequentavamo il buio della notte dei Muri ma le strade sdrucide e infernali del nuovo schiavismo urbano che entrava nelle città europee e le collegava tra loro.
L’esercito di ragazzini erano l’epifenomeno di un meccanismo che arriva ancora oggi nei nostri marciapiedi portandosi dietro tutta la complessità e l’ingiustizia del mondo.
Arrivavano non accompagnati dalla famiglia. Quasi tutti dai sobborghi di Casablanca: probabilmente già randagi e sfruttati all’origine. Erano piccoli, cattivissimi, aggressivi e violenti. Erano la manovalanza degli spacciatori adulti: la notte strisciavano fino ai Muri e lavoravano in gruppo, in branco.
Per loro i Murazzi era un luogo di lavoro, ne’ più ne’ meno. Uguale a quello di altre città dove transitavano le loro vite vendute. Quel luogo era speciale per noi, ma indifferente per loro: tutte le città – con buona pace dei benpensanti che indossano occhiali rosa solo quando escono da Torino – hanno luoghi simili.
L’occhio sensibile di un ferramenta di Porta Pila ci avvisò di un fenomeno che avevamo letto soltanto a proposito delle favelas del Sud America: centinaia di confezioni di Bostik al giorno venivano comprate da quei bambini. Mille lire, allora, per comprarsi la possibilità di sballarsi e dimenticare.
Avviammo progetti per agganciarli: i servizi sociali, le associazioni, le forze dell’ordine, i mediatori culturali, noi di The Gate che spendevamo energie e giornate per affrontare il problema. Sapevamo che non si poteva dare risposta alla paura che suscitavano se non affrontavamo all’origine il perché erano lì provando a trovare soluzioni ed alternative. Svuotavamo il mare con un cucchiaino, è vero. Ma chi salva una vita salva l’umanità, si dice nei testi biblici.
Erano piccoli, sfruttati da tutti. Dai proprietari delle soffitte – autoctoni e timorati di Dio – che affittavano i materassi marci a cifre disgustose. Dai connazionali adulti che li mandavano alla guerra dello spaccio come carne da macello. Erano aggressivi, tenuti in cattività. Avevano gli occhi cattivi di chi ha paura e non deve farlo vedere. Nei bidoni della spazzatura trovavamo i loro vestiti: di marca, griffati. Ne compravano in continuazione: quando erano sporchi li buttavano via perché non c’era nessuno che glieli lavasse.
Cambiavano continuamente, non restavano mai a Torino per più di qualche mese: troppo alto il rischio che imparassero la lingua, che incontrassero qualcuno che li avrebbe protetti e ricoverati, che avessero la possibilità di tornare bambini o di denunciare i loro schiavisti.
Appena ne agganciavamo uno, veniva fatto sparire.
Erano bambini venduti dalle famiglie alle organizzazioni criminali dedite alla tratta degli esseri umani. Bambini per lo spaccio, bambine per i marciapiedi.
Arrivavano a Genova, in nave, nascosti nei containers. Il circuito coinvolgeva alcune tappe: Torino, poi Marsiglia, Barcellona. Ruotavano in continuazione.
La notte sciamavano ai Muri, affrontavano e servivano il popolo della notte con l’aggressività e la paura di chi non aveva nulla da perdere.
So, conosco cosa voleva dire averci a che fare: buttafuori, strutture esterne ai locali che avevano il compito di difendere chi stava dentro. Risse, bottiglie spaccate, coltelli. Asce, scimitarre. Fuga per le fogne e i sotterranei che collegavano il fiume alle soffitte. Una guerra di guardie e ladri, continua e impietosa.
Cominciò lì la storia successiva dei Muri dell’ultimo periodo, una storia dove tutti hanno torto e tutti ragione.
Non racconto il lavoro – talvolta utile talvolta frustrante – che facemmo in tanti in quegli anni.
Però oggi le cose sono diverse, cambiate. Non migliori o peggiori, semplicemente i fenomeni si evolvono e cambiano. Al loro posto ora ci sono altri “cavalli” e l’organizzazione dello spaccio ha cambiato modalità, luoghi e tipologia di sostanze.
Giusto perché sia chiaro: c’è offerta perché c’è domanda. L’offerta va nei luoghi dove incontra la domanda. E’ la legge del mercato, anche quello illegale. E’ inutile concentrarsi solo sull’ultimo anello della catena se non si riesce a guardarla – ed affrontarla – tutta. L’offerta è “loro” ma la domanda è “nostra”. Ma questo è un altro discorso, ancora più complesso.
Però quell’esercito di ragazzini piccolissimi e randagi non c’è più in quella forma. Il bostik non si vende più, quelle soffitte sono state risanate. Alcuni di quei bambini ne sono usciti e fanno altro. Le organizzazioni criminali pescano braccia da altri eserciti, ma almeno non reclutano più i piccoli randagi dalle periferie del Nord Africa mandandoli in un tour europeo fatto di fogne, colla e solitudine cattiva.
Mi limito a sottolineare – senza alcun moralismo – che in quegli anni c’era chi stava da una parte del sotterraneo e chi dall’altra. Erano due mondi che affrontavano lo stesso fenomeno senza parlarsi, senza riconoscersi e senza aiutarsi a vicenda. Vivendo mondi e geografie sociali separate e distanti malgrado ne condividessero le cause e gli effetti.
Il sociale e il culturale vivevano stagioni diverse, luoghi diversi e passioni diverse malgrado fossero facce della stessa medaglia. Poco sociale andava ai Muri, poco culturale si coinvolgeva nel giorno così poco underground e così tanto pulp dei vicoli di Porta Palazzo.
Rimuoverlo ci impedisce di analizzare seriamente e con onestà intellettuale la memoria collettiva.
Senza questo sforzo, anche l’immaginario collettivo su cosa deve succedere nei luoghi della città rischia di banalizzarsi e vederne solo una, di faccia. Quella presentabile oppure solo quella impresentabile. Dimenticando che negli sfridi delle città invisibili c’è tutto ed il suo contrario.
Non si salva l’anima delle città se non si ha il coraggio – o la spinta – a scendere anche nei loro inferi per capirli e, possibilmente, attenuarne la distanza dal resto.
Soprattutto si inventa il futuro se si tengono insieme tutte le facce del prisma e si ha il coraggio di iniziare un’altra storia.