Qualche riflessione parziale sulla #buonascuola
Pubblicato su Gli Stati Generali 4/05/2015
Durante la settimana feroce dei Forconi, un anno fa, orecchiai una discussione collettiva via social tra “liceali” e “professionali”: gli studenti delle superiori avrebbero dovuto o no partecipare ai blocchi e alle manifestazioni di quei giorni?
Provai ad entrarci dentro, a capire le posizioni in gioco. Mi erano più vicine e comprensibili le motivazioni dei liceali: non si partecipa perché i Forconi non hanno nessuna rivendicazione politica, solo rabbia e luddismo. Più vicine, certo, perché sono stata liceale in tempi molto politicizzati e perché sono genitrice di una liceale nella quale un po’ mi specchio, inevitabilmente.
Durante quei giorni folli i ragazzi dei professionali e dei tecnici, moltissimi, scesero in piazza.
Mi procurai l’indirizzo mail di quello che sembrava essere il portavoce, gli scrissi. “ciao, sono l’assessore alle politiche giovanili. Vorrei incontrarvi, parlare con voi, capire quello che si può fare”. Vennero da me una decina di ragazzi e ragazze di scuole diverse: alberghieri, geometri, industriali, arte bianca di Torino e Provincia. Passammo qualche ora a parlare, ci siamo tenuti in contatto.
Erano tutti rappresentanti di istituto, la metà circa di seconda generazione. Figli dell’immigrazione, molti di loro: con la fretta e la fame di rispondere all’investimento delle famiglie per farli studiare. Tutti serissimi e appassionati. Ragazzi impetuosi e con senso critico, incalzanti con le loro domande di senso. Ingenui ed anche brutali nelle loro domande, come spesso si è alla loro età.
La lista delle loro questioni apre un mondo, infila a testa china tutta la complessità in un’aula di scuola, spinge a chiedersi da dove cominciare, come affrontare generazioni spaesate e affamate di futuro.
“Abbiamo paura delle nostre scuole, che ci cadano in testa”. La prima, pressante, riguarda lo stato dell’edilizia scolastica. Le scuole non sono percepite come luoghi brutti, ma addirittura pericolosi. Dove si ha paura ad andare in palestra perché ci sono le crepe sul soffitto, dove non si è sicuri a fare le scale di corsa perché sono sconnesse. Su questo, e lo sappiamo, ci vorrebbe un piano Marshall – e diamo atto che qualcosa questo Governo ha fatto – che riqualifichi e sistemi edifici costruiti durante gli anni allegri delle betoniere e del boom demografico. Mentre noi baby-boomers facevamo i doppi turni perché tanti e troppi, si costruivano scuole in fretta e furia per consentirci di avere delle aule che ci contenessero. Ora le ereditano loro, queste quaranta-cinquantenni scrostate e piene di rughe che si portano malissimo i loro anni. Non sanno a chi chiedere informazioni: la dispersione delle competenze li affoga nella complessità normativa e burocratica. Hanno paura di andare a scuola. E magari questo diventa la grande scusa per non andarci più.
“Se non imparo adesso poi non ho più tempo e sarò tagliato fuori per sempre”. Ci raccontano di scuole senza computer, di LIM accatastate nei magazzini, di istituti per geometri senza programmi Cad, di strumenti di lavoro che forse andavano bene un secolo fa, di stage e tirocini la cui qualità e durata dipende dalla buona volontà del singolo insegnante o del singolo dirigente scolastico. Devono piratare i programmi che servono loro per imparare un po’ di digitale da autodidatti, perché le loro famiglie non possono permettersi di acquistare licenze e la scuola non ce l’ha. Alla faccia dell’educazione alla legalità. Il registro elettronico – che pure nei Licei è tendenzialmente uno degli strumenti algidi di rapporto scuola-famiglie – nelle loro scuole spesso è un optional. Questi ragazzi non hanno tempo di rimandare: non faranno l’Università, non possono permettersela. Hanno bisogno, ora e subito, di avere strumenti per affrontare il mondo. Quello complesso e contemporaneo che c’è lì fuori. Sono rassegnati al fatto che usciranno di li e saranno inghiottiti dal precariato, dal lavoro nero, dalla mancanza di opportunità per crescere professionalmente. Hanno fretta e sono arrabbiati.
“se loro non credono in me, come faccio io a credere in me stesso?” Raccontano di insegnanti stanchi e sfibrati che li guardano scuotendo il capo e dicendo “per fortuna l’anno prossimo vado in pensione”. Di ore troppo brevi per fare domande, di campanelli che suonano e professori che corrono in un’altra classe perché non hanno nemmeno 5 minuti di compresenza o semplicemente di tempo per crescere giovani adulti. Raccontano di intervalli passati a ciondolare nei bagni dove si vende di tutto, senza che nessuno intervenga se non, ogni tanto, chiamando le Forze dell’Ordine. Si sentono giudicati, brutti, bulli, stupidi, ignoranti, caproni. E allora, come racconta Pennac in Diario di Scuola, cercano di non deludere il giudizio facendo di tutto per essere brutti, stupidi, bulli, ignoranti, caproni.
“ma noi che diritti abbiamo come rappresentanti di Istituto?” Questi ragazzi non sanno niente, si muovono come falene nella notte, sbattono sulle pareti di una scuola che non da strumenti di cittadinanza se non in rari casi. Dei Decreti Delegati non sanno nulla: nessuno glieli spiega. Noi incontravamo la politica, le giovanili dei partiti: eravamo contropotere rispetto ai prof, ma sapevamo di esserlo. Questi ragazzi si muovono in un mondo indifferente e non sanno cosa pretendere, cosa chiedere, cosa la scuola deve dare. Hanno la passione e la voglia di essere attivi, incalzanti, organizzati, dialettici ma, semplicemente, non trovano quasi nessuno che li faccia crescere. Il loro primo esercizio di cittadinanza – il rappresentare gli studenti nel Consiglio di Istituto – viene frustrato dall’assenza di contesto. Secchioni per i compagni di classe, rompiscatole per i prof. Quasi nulla intorno che li accompagni a credere nella democrazia, nell’impegno, nella responsabilità.
Racconto le loro domande, e la difficoltà di offrire risposte se non l’ascolto, perché sono le grandi assenti nel dibattito che inevitabilmente si produce appena si parla di riforma della scuola.
Si parla di muri che cascano e di contratti nazionali degli insegnanti, di assunzioni e di precari. Di orari, materie curricolari, salari infimi del personale della scuola. Questo succede da quando ho memoria. Di risposte alla domanda di contemporaneità delle nuove generazioni non si parla mai. A questa generazione nativa digitale si offrono ancora le diapositive in bianco e nero. Come se a noi avessero insegnato a scrivere sulla tavoletta di cera.
Per mille insegnanti straordinari ce ne sono duemila che scappano al suono della campanella e ripetono la stessa lezione da 30 anni. Succedeva quando andavo a scuola io. Succede ora anche se è impopolare dirlo. Con l’aggiunta, però, di un contesto sociale ancora più difficile: si agisce nell’assenza di una società adulta educante, si è figli di famiglie sfasciate o affaticate, si percepisce continuamente l’assenza di prospettiva e futuro.
La scuola – la scuola pubblica – è l’unica arena nella quale crescere generazioni consapevoli.
E’ il luogo dove dovrebbe prodursi l’incanto, lo scatto in avanti. A maggior ragione in quelle scuole che in 5 anni devono dare risposte alla fame di futuro non rimandabile. Per quei nostri figli che non faranno l’Erasmus, il dottorato, la triennale e la specialistica, che non possono permettersi di rinviare la domanda fondamentale che ad un certo punto ciascun individuo si fa: “cosa ne sarà di me? Cosa farò, come costruirò la mia vita?”
Ai miei amici insegnanti – ne ho tanti – giro le domande anche se so che loro fanno parte di quei mille e mille. Insegnanti stremati che amano i ragazzi, che si interrogano, che studiano e approfondiscono, che continuano tutta la vita a formarsi e dedicano tempo volontario ad una scuola che non lo riconosce. Lo fanno per i loro ragazzi, per non lasciarli soli come falene nella notte. Lo fanno con lo stesso stipendio dei tanti che fanno la doppia professione, che ripetono le stesse cose, che parlano delle loro classi come di un girone infernale frequentato da bufali ignoranti.
Possiamo dire che la scuola cambierà quando i primi vinceranno sui secondi? Quando le domande arrabbiate e rassegnate di quei ragazzi avranno una risposta seria, univoca, moderna? Quando la scuola – e il progetto educativo e gli investimenti pubblici indispensabili – la smetteranno di essere scontro tra corporazioni, difesa dell’esistente da un lato e miserabile assottigliamento di risorse dall’altro? Quando la scuola diventerà un progetto di società?
Scomodiamo pure Don Milani e Calamandrei ma, soprattutto, scomodiamoci noi. Tutti. Genitori e figli. Educatori e politici. Noi società adulta, tutta. Non lasciando soli questi ragazzi a cercare risposte alle loro domande. Non lasciando soli gli insegnanti, tanti ma non tutti, che a quei ragazzi dedicano la vita malgrado tutto.
Però, cari insegnanti, vi prego di smetterla di pensare che gli unici che possono parlare di scuola sono gli insegnanti stessi o chi li rappresenta. Sono molto interessata alle alchimie complicate del perché la scuola non funziona. Però vorrei dare delle risposte a quei ragazzi che incalzano sul futuro. Il loro.