le belle bandiere e la sinistra senza trattino
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l’analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
La religione del mio tempo, Pier Paolo Pasolini, 1961
Sono una donna di sinistra. Qualsiasi cosa voglia dire oggi, mi riconosco nelle bandiere, nelle parole, nelle scelte di campo. Nelle canzoni, nei simboli, nella storia. Nell’essere partigiana.
Sono una potenziale elettrice e una potenziale militante di tutto quello che sta a sinistra del PD attuale. Tuttavia mi interrogo – e interrogo – sul perché appartengo alla minoranza di sinistra dentro il PD e provo un senso di stanchezza appena lambisco le belle bandiere sventolate da quella sinistra al di fuori – che pure sono le mie – e per le occasioni sprecate che stanno dietro a quelle belle bandiere.
Parliamo degli sfridi: quelle scale di grigio che impediscono di avere davanti la scacchiera dei buoni e dei cattivi, dei bianchi e dei neri, degli indiani e dei cow-boys. In un mondo globalizzato, iniquo, dalle disuguaglianze accentuate e i centri di potere delocalizzati, non basta rinchiudersi nelle rassicuranti categorie del ‘900. Forse dobbiamo andare a ritroso, rispolverare Karl Marx spogliandolo della poderosa influenza hegeliana di filosofia della storia che si fa carne e progetto di società. Perché non possiamo dimenticare l’acuta analisi di Bauman sul futuro liquido, sulle vite di scarto, sulla società frammentata e priva di soggetti che si riconoscono come classi sociali e quindi, come tali, capaci di entrare in un rapporto dialettico, conflittuale o antagonista con il potere. Dobbiamo ricordarci delle visioni apocalittiche di Ballard di Millenium People: la rivolta dei forconi ce ne ha dato un assaggio. Lì non c’era rivoluzione, ma rivolta senza politica.
Ridisegnare la scacchiera del potere, dei potenti, di chi sta sotto e di chi sta sopra significa farsi permeare dalla contemporaneità, adottare dei codici alfabetici che ci consentano di capire dove siamo, cosa siamo e quale visione di società esprimiamo. Per il futuro, per i prossimi 20 anni. Per le generazioni che verranno. Significa rispondere alla domanda “so what?”, e quindi? Come, con quali strumenti, con quali risorse, attrezzi, modalità, con quali processi politici e con quali soggetti sociali affrontiamo la sfida.
Soprattutto non possiamo ignorare il concetto di egemonia culturale che Gramsci ha regalato alla sinistra italiana e mondiale. Un concetto che ha permeato la storia della sinistra del ‘900 e che ha permesso al PCI e a tutto quello che gli stava intorno o di fianco di essere, per decenni, quel laboratorio di complessità e di dialettica, scontro e crescita, conflitto e pacificazione tra intellettuali, classe operaia, proletariato e società diffusa.
Il concetto di egemonia culturale mi permette di introdurre un tema a me caro: quello della pedagogia della complessità, quel compito difficile e faticoso che implica il corpo-a-corpo, la pugna, il continuo scontro e confronto con gli sfridi, le scale di grigio, le contraddizioni che nella scacchiera delle nostre città, dei nostri territori, ribalta e confonde il quadro dei buoni e cattivi mischiando le carte in continuazione.
Sventolare da soli le proprie belle bandiere – appagati dallo stare dalla parte giusta e buona del mondo – aumenta il divario, scava muri invalicabili, non fa cambiare idea a nessuno, non ci salva dal baratro di ferocia e ineguaglianza a cui siamo destinati, come società europee e locali.
Quando nelle assemblee di abitanti di case popolari i nostri vecchi compagni – onestamente a sinistra da sempre – ci urlano di riaprire i forni per zingari e immigrati non vale dire che sono razzisti o che manca integrazione, o che è colpa di questo o quello mentre si discetta di beni comuni in un locale di San Salvario. Dentro quelle urla c’è Bauman, c’è tutta la sociologia e l’antropologia che vogliamo ficcarci dentro, c’è un male profondo che parte da lontano e sarebbe ingeneroso attribuirlo solo alla cronaca del presente. C’è la disuguaglianza e la ferocia di un mondo che cambia, di una globalizzazione che non fa prigionieri, di un’egemonia culturale morta e sepolta, ma anche di una sinistra che sventola belle bandiere senza accorgersi che sono strappate, lacerate, ferite. Quelle urla non vanno ignorate: vanno ricucite e rammendate, senza dar loro ragione.
In questi anni nel corpo-a-corpo, negli sfridi e nelle fatiche della contemporaneità, nel fango della povertà estrema a fianco della povertà meno estrema, nel conflitto tra ultimi e penultimi, non eravamo in tanti. Anzi, eravamo proprio pochi: la platea era affollata dai corvi della destra, di quelli che entrano con le taniche di benzina nei fuochi del conflitto sociale. A spegnere gli incendi eravamo pochi, soli, lottatori inzaccherati di fango che tentavano di instillare buon senso, razionalità. Ci siamo riusciti, talvolta: abbiamo rammendato qualche strappo sapendo che altre mani e altri aghi sarebbero stati necessari. Tra i giovani disoccupati di Vallette, i rifugiati del Pakistan, tra gli abitanti di Falchera a contatto con i campi rom, tra la rivolta di alcuni abitanti di Barriera al mercato di libero scambio – che è una risposta sociale, razionale e politica alla povertà italiana e straniera – non eravamo in tanti che, a mani nude e con la bussola etica ben presente, pugnavamo nel fango.
L’accademia benecomunista ci impartisce e dispensa lezioni, ci spiega chi sono i buoni e chi sono i cattivi, sventola belle bandiere ma non ci offre ne’ ago ne’ filo per rammendare e ricucire le nostre comunità lacerate. Scivola con mirabilia dialettica alla domanda; so what? Ci lascia soli nella pugna.
Mette tutti noi dalla stessa parte – i cattivi a trazione renziana – e così facendo impugna belle bandiere appena uscite dalla lavanderia, sposta l’asticella più in la, sta dalla parte giusta e buona del mondo e dimentica che senza egemonia culturale non c’è sinistra, non c’è visione di società e non c’è futuro.
Sono anni che aspetto il momento in cui la sinistra – quella senza trattino – accetti con coraggio la sfida della contemporaneità: sono pronta, mi interessa, ci metterei il naso e porterei le mie bandiere fruste, lacere, dalla trama assottigliata. Le metterei a disposizione: per me la politica è sguardo sul mondo e sono piuttosto stanca di avere un ruolo. Quindi non competo nell’agone elettorale, tranquilli.
Desidero quel momento in cui, oltre a descrivere molto bene le responsabilità degli altri (il PD, Renzi, il Governo, i poteri forti, il turbocapitalismo, la finanza, l’Europa), inizi davvero una stagione in cui riscrivere con un nuovo alfabeto la storia che ci scorre sotto i piedi. In cui rimettere in discussione – per salvarli e riformarli e non per distruggerli – i luoghi di rappresentanza: dai partiti ai sindacati, agli organismi intermedi della società senza i quali non può esserci pedagogia della complessità e quindi nemmeno egemonia culturale. Ma che non possono essere difesi per come sono, semplicemente perché in alcune pratiche sono indifendibili, tutti. E mentre si sventolano le belle bandiere, gli organismi intermedi agonizzano e chi da il colpo di grazia acquista pure consenso. Con il risultato di avere da una parte il potere – invisibile, globale, nascosto, ademocratico – e dall’altra la moltitudine senza rappresentanza, senza classi, senza politica. Sola, con la rabbia e il click-mi-piace.
Sono anni che ci provo e poi sbadiglio, perché sento sempre le stesse parole e lo stesso sventolio di bandiere e sempre meno mani a sostenerle. Spesso sempre le stesse, da anni.
Allora sto nelle mie contraddizioni: faccio la sinistra dentro il PD che mi impedisce di sventolare belle bandiere e sentirmi dalla parte buona e giusta del mondo, però provo a rammendare, ricucire, convincere qualcuno a guardarla in un altro modo. Scommetto sul fatto che dopo Tony Blair è arrivato Jeremy Corbyn e nel frattempo a nessun labourista cockney di stampo trozkista è venuto in mente di fondare un nuovo partito.
Continuerò nella mia vita ad essere una elettrice ed una militante di sinistra– perché “la dimensione dannata della politica”, scrive Edgar Morin, è come una pelle e non si può strappare. Lo sarò a prescindere, dal ruolo e dalle posizioni. Perché la passione politica è come un diamante – è per sempre – mentre il ruolo politico e istituzionale deve essere a tempo determinato. E spero, prima o poi, di non provare più questa noia amara e triste nel vedere quante occasioni si sono sprecate. E non sempre per colpa degli altri. Continuerò a cercare di far ridiventare stracci le belle bandiere.