pensando a Molenbeek e alla vita italiana alla convivenza
Pubblicato su Gli Stati Generali, 20 novembre 2015
La prima volta che sono entrata in una moschea (a capo scoperto e con le scarpe, perché ero ospite e nessuno mi ha mai chiesto di essere diversa da quello che sono) fu a Molenbeek, agli inizi degli anni ’90. Ho vissuto a Buxelles dall’89 al 94.
Molenbeek è il quartiere di cui si parla oggi, in questa cronaca convulsa di terrore e paura.
Fu anche la prima volta che assaggiai la Harira offerta per rompere il digiuno del Ramadan.
Fu in occasione di una fine di Ramadan: moschee aperte, cortili con tavole imbandite che invitavano i passanti ad unirsi ai fedeli.
Non sapevo niente, se non quello che avevo studiato dei saggi di Costantinopoli, Avicenna, Averroè e del rinascimento arabo in Andalusia. Avevo letto Tahar Ben Jalloun e Le crociate viste dagli arabi di Amin Malouf, ma non sapevo niente comunque.
Ero digiuna di contemporaneità e tutto doveva ancora avvenire. Nemmeno il macello balcanico era ancora avvenuto: l’Europa non era ancora morta per la seconda volta a Sarajevo, quel maledetto 11 settembre era solo una data tra il 10 e il 12, il muro era appena caduto e tutti pronosticavano democrazia, libertà e integrazione tra popoli europei.
I germi di nuovi conflitti geopolitici avanzavano – la prima guerra del Golfo era alle porte, in Algeria cominciava una stagione cruenta e difficile – ma soltanto qualche gufo visionario di Le Monde Diplomatique li vaticinava.
Quell’incontro con religioni, culture, lingue, colori così contemporaneo e così cosmopolita mi spinse a riflettere, a capire, a studiare e a interrogarmi sulle società plurali, le loro straordinarie opportunità ma anche le loro contraddizioni.
Perché Molenbeek era un viaggio nel mondo a pochi chilometri dal cuore delle istituzioni europee. Gli odori di spezie, la folla, gli sguardi erano così uguali e così diversi da quelli che incontravi appena due strade più in su o in giù.
Mi colpì, allora, un reportage di Le Soir: alcune scuole di Molenbeek e di Ixelles (altro mondo, altra storia anche se a pochi chilometri di distanza) si gemellarono organizzando occasioni di scambio e di incontro tra ragazzi. Mi colpì perché ebbi l’impressione che ognuno restasse nel suo mondo e non attraversasse i confini. I mondi vivevano accanto, ti accoglievano senza ostilità e con molta ospitalità ma l’impressione era di sovrapposizione, non di relazione.
Mi sembrava un segno di separatezza, di mancanza di mélange in un mondo così cosmopolita come la società brussellese. Chi si mischiava erano le élites, gli intellettuali, i quadri, la classe dirigente. Il mio medico della mutua era italiano, il dentista portoghese, il funzionario pubblico magrebino, il professore di letteratura, conosciuto a casa di amici, libanese.
Il mix mi sembrava elitario, gli altri stavano dentro i confini. Oppure facevano parte del paesaggio: le signore che pulivano le toilettes e gli uffici africane, italiane, turche, i controllori sugli autobus neri bianchi gialli rosa. C’erano i russi bianchi – arrivati dopo la rivoluzione sovietica – con i loro ristoranti e i samovar, c’erano gli armeni, i libanesi, i vietnamiti e gli indonesiani.
Mondi uno accanto all’altro, entusiasmanti ma separati.
Io stessa appartenevo ad un gruppo etnico che aveva i suoi confini. Giovane italiana non emigrata ma già “generazione europea” suscitavo commenti sbalorditi da parte dei miei vicini belgi autoctoni: troppo alta e troppo chiara per essere un’italiana vera, sostenevano fossi polacca. L’idealtipo dell’italiana, allora, era corvina, bassa, con gli occhi neri, il foulard in testa e il lutto portato per tutta la vita: le immigrate degli anni 50. L’Italia degli immigrati italiani in Belgio era un paese che io avevo visto solo nei film neorealisti in bianco e nero. Ho conosciuto donne italiane anziane emigrate che dopo 30, 40 anni parlavano dialetto stretto calabrese, abruzzese, emiliano (e si stupivano io non le capissi) e si affidavano ai figli per fare la spesa in francese o in fiammingo. Quando rubarono in casa dell’anziana vicina del primo piano – belga autoctona – lei mandò la polizia da me sostenendo che da quando abitava nel palazzo “la petite Italienne” non c’era più sicurezza nella zona. Ridemmo, io e i poliziotti. Molto.
Poi, magia dei processi cosmopoliti, al Belgio fu sufficiente il Trattato Di Maastricht del ’93 con la cittadinanza europea e il voto ai comunitari per poi qualche anno dopo eleggere Premier Elio Di Rupo, figlio di emigranti abruzzesi e leader socialista.
Ci torno spesso a Bruxelles e appena ho tempo vado nei quartieri del cuore, quelli dove ho imparato ad essere cittadina del mondo: Molenbeek, Schaerbeek, la parte africana di Chaussée d’Ixelles. Quelli dove ho imparato a mangiare turco, pakistano, congolese. Dove ho comprato le stoffe Wax prima di sapere che pur essendo africane le producono in Olanda. Dove ho letto libri orecchiato lingue di cui ignoravo l’esistenza. Dove ho ascoltato il Rai algerino e le sonorità mediorientali. In 20 anni sono cambiate le cose, probabilmente. Ma l’atmosfera rimane quella entusiasmante e separata.
Oggi quelle impressioni mi tornano a galla, quelle contraddizioni e quegli errori da evitare, qui, dove siamo ancora in tempo ad attraversare confini e a non creare mondi separati. Qui dove i confini identitari li attraversiamo tutti i giorni, dove la lingua in comune tra i tanti “stranieri” che vivono nello stesso palazzo – tutti noi compresi che arriviamo da altrove – è l’italiano, dove non c’è bisogno di organizzare gemellaggi tra scuole perché i nostri bambini crescono insieme.
Alla fine la mescola c’è: a Porta Palazzo, a San Salvario, in Barriera. Non ci sono monoculture isolate ma un variopinto e faticoso minestrone di genti, situazioni, colori, fatiche. Quasi ovunque, in Italia, è così. Sicuramente a Torino è così. Non ci sono enclave urbane monoculturali.
Ci si conosce per nome. Si fa fatica, ci si scontra continuamente, si vivono contraddizioni quotidiane ma alla fine, in fondo, si vive il futuro fianco a fianco. Ci sono differenze sociali, condizioni economiche diseguali, disagio abitativo. Non c’è nulla di esotico nel mix, c’è vita vera e fatica concentrate nello stesso cortile. C’è la responsabilità di accompagnare i processi di inte(G)razione.
Però sarà tutto più facile, fra 20 anni, se avremo la saggezza, noi società adulta, di investire intelligenza e razionalità.
Un amico senegalese una volta mi disse: “in Francia hanno leggi bellissime e principi fantastici ma in casa di un francese non ci entri mai. Qui in Italia abbiamo leggi tremende e alcuni politici orrendi ma si diventa amici in fretta. Poi, voi italiani non ci volete ma ci affidate le cose più sacre che avete: i vostri anziani e i vostri figli”.
Nella semplicità di questa lettura ho sempre trovato la via italiana alla convivenza. Adattiva, flessibile, caciona, sciatta, senza modelli e senza mainstream calato dall’alto. Affidata agli Enti Locali, alle reti di prossimità, al Terzo Settore affannato, alle comunità laiche e religiose, alle tante risorse locali che si mettono in moto e lavorano nel piccolo. Una Via italiana che è a macchia di leopardo, sfumata, caotica, fatta di buone pratiche che stentano sempre a diventare buone politiche.
Un limite, enorme, ma anche una forza, enorme.
Sono tanti anni che investo cuore, cervello, pensieri, azioni, politiche perché questa via sia quella che, fra 20 anni, permetterà ai nostri figli, tutti, di guardarsi indietro e ringraziarci.
Teniamocela stretta, questa via italiana alla convivenza, e nel frattempo facciamo anche leggi giuste, che guardino oltre l’oggi, che pensino al futuro. Ignorando gli imprenditori della paura che, in realtà, vorrebbero lo scontro e la violenza solo per poter dire che avevano ragione e, così, ottenere qualche voto in più alle elezioni. Misera ambizione, di fronte ad un mondo che cambia e cerca una strada per non esplodere.
Perché essere oggi per una società che discrimina per colore della pelle, religione e cultura, scriveva Faulkner, è come vivere in Alaska ed essere contro la neve