Territorio e beni comuni: pianificazione territoriale e polvere delle strade
il mio contributo al saggio di Mauro Giudice e Fabio Minucci
“Territorio Bene comune”
Altra Linea Edizioni, 2017
(il resto del libro è ancora più interessante e con contributi molto più autorevoli)
Il tema della pianificazione territoriale, così come affrontato nel dibattito italiano sulla trasformazione delle città e dei territori, parla di sconfitte: della visione funzionalista da un lato e dall’altro dello sguardo del rigeneratore urbano. Tra città da costruire e città da rigenerare e decostruire, non c’è stato incontro ne’ ibridazione.
In questi decenni ci si è concentrati sugli strumenti normativi – la legge urbanistica, le norme – anche perché non c’è stato dibattito condiviso sulla visione delle trasformazioni, sul senso, l’idea, la governance, il genius loci dei luoghi, le loro funzioni e rappresentazioni morfologiche, i modelli di sviluppo locale e i bisogni sociali, culturali, politici di un territorio. Si è pensato alla cassetta degli attrezzi, ma non si è discusso se e cosa costruire, con chi e per chi farlo.
Una sconfitta, intanto, per quel filone fecondo di pratiche e interventi che, soprattutto dagli anni ’90, aveva fatto presagire la nascita di nuove comunità di saperi intorno al tema della trasformazione urbana: multidisciplinari, capaci di contaminarsi nei linguaggi, nei metodi, negli strumenti.
La stagione delle Iniziative Locali di Sviluppo, dei Patti Territoriali, dei progetti di rigenerazione urbana che – a partire dal Libro Verde sulla crisi urbana della Commissione Europea del ’93 – hanno dato impulso a pratiche locali interessanti, che avrebbero potuto diventare buone politiche se solo se ne fossero lette ed analizzate le criticità, i successi e i vincoli.
Quella stagione – per molte ragioni – non ha determinato una crescita collettiva di sapere diffuso ed è rimasta confinata in quella comunità di pratiche – accademiche, politiche, tecniche – che hanno condotto progetti.
Si è sterilizzato il dibattito intorno al bello-brutto, agli strumenti, al numero di varianti nei PRG, agli standard applicati o evasi. Si è discusso di numeri e moltiplicatori quando in realtà bisognava inventarsi un nuovo alfabeto per pensare, narrare e trasformare territori.
E’ mancata una visione umanistica della città, capace di sviluppare un pensiero collettivo intorno alle grandi sfide della trasformazione che non siano solo indici e cubature, bensì funzioni e bisogni, dinamiche di cambiamento di abitudini, stili di vita, fruizione dello spazio pubblico, vincoli di bilancio nelle manutenzioni dei luoghi, nuovi soggetti sociali ed economici che si sono affacciati alla vita della città. E’ mancato Z. Baumann ed è mancata una riflessione tecnico-urbanistica su come pianificare la morfologia di una società liquida.
E’ mancata la rappresentazione sociale della città, quella visione mirabilmente espressa nel 1309 nella costituzione della città di Siena: si “ deve avere a cuore “massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” . Visione politica, nel suo significato nobile ed originario.
Non si è tenuto insieme il brulichio disordinato e dinamico della civitas con la complessità dell’urbs, della forma, delle funzioni, degli interessi e del futuro della città.
Si è tendenzialmente affrontata la vita urbana a volo d’uccello, con uno sguardo dall’alto. Si sono disegnate le città, le loro immense aree da riconvertire, sulla base degli assetti proprietari delle aree, sui vincoli di piano, su funzioni immaginate decenni prima e sulla necessità di svincolarle dalle procedure per tenere insieme interessi fondiari, capacità economica dei soggetti realizzatori, calcoli di standard, indicatori economici ed affanno delle risorse pubbliche.
I pianificatori hanno avuto timore di mettere in discussione gli strumenti – per paura che la deregulation aprisse la strada a scempi territoriali. Questo senza considerare che la maggior parte degli scempi territoriali, irreversibili per impatto ambientale, funzionale ed estetico, li ereditiamo e sono spesso avvenuti nel rispetto delle norme.
I decisori, al contrario, si sono trovati nel migliore dei casi a fare i conti con l’eternità delle procedure, nel peggiore hanno cercato di svicolare e trovare scorciatoie. L’urbanistica è diventata, per la maggior parte dei casi, materia di ricorsi al TAR e stratificazioni di livelli decisionali incompatibili con la vita umana.
Per chi, come me, si è occupato per anni di brown-field, di luoghi costruiti nel passato per ospitare funzioni oggi obsolete, di conflitti d’uso dello spazio pubblico, di pezzi di città ammaccati ma vivi, abitati, rumorosi, inquinati, vitali, questa divaricazione tra urbs e civitas è stato l’elemento più faticoso da affrontare.
Perché non sta alla technè risolvere il dilemma, bensì al logos, al discorso ed alla narrazione politica di cui, poi, la technè è figlia ed espressione. La civitas della città contemporanea non entra nella forma dell’urbs, nei suoi spazi codificati e pianificati. Al contrario trasborda, irrompe, si impossessa dei luoghi e li trasforma a prescindere.
La città pianificata di funzioni, dove la zonizzazione ha disegnato i posti dove produrre, lavorare, consumare, vivere, fruire di tempo libero, è messa in crisi dall’irrompere di nuove abitudini e nuove modalità di uso dello spazio che ne provocano difformità e disordine. Il decisore si trova a rincorrere emergenze, riempire vuoti urbani diventati problema, rischia di intervenire nello spazio costruito in modo rapsodico, puntuale, sganciato da una visione complessiva, collettiva, condivisa.
Però sappiamo che il territorio – soprattutto le nostre città – è il prodotto di una mutevole ma ininterrotta costruzione collettiva. Lo ereditiamo costruito, radicato, stratificato nelle funzioni, devastato e inquinato dall’uso predatorio che ne è stato fatto nel corso del secolo breve. Portiamo sulle spalle il vincolo della sua forma fisica ed abbiamo la necessità di produrre un nuovo senso dei luoghi e delle funzioni.
Il nostro tempo produce mobilità ma anche precarietà del lavoro o assenza di lavoro. Determina nuove opportunità ma anche crescita delle diseguaglianze, della frammentazione sociale, dei soggetti liquidi che abitano la città.
Viene colpita la forma stessa della città, quella prodotta nel corso del XX secolo ed oggi inadatta, obsoleta e fatiscente. La città contemporanea deve reinventarsi rigenerando la sua forma sapendo che la perdita degli usi – produttivi, sociali, culturali ed economici – rischia anche di depauperare ed impoverire le pratiche sociali di appropriazione dello spazio urbano.
La città contemporanea rischia di sterilizzarsi intorno alla dicotomia centro-periferia, musealizzando e sterilizzando di funzioni il centro ed affastellando tutto ciò che serve alla vita urbana fuori dal centro. Facendo i conti quasi esclusivamente con indici, cubature, standard, oneri, investimenti economici e procedure amministrative.
Eppure la disciplina urbanistica non è sembrata particolarmente sensibile a questi argomenti: il rischio è infatti quello di pianificare un territorio e una città dai quali gli abitanti si sono allontanati, non si riconoscono o, semplicemente, abitano senza vivere e produrre comunità e legami sociali.
Nelle pratiche feconde di rigenerazione urbana si è usato a lungo il termine “ progetto di territorio”, o pianificazione strategica, per opporlo alla visione funzionalistica della pianificazione urbana.
Per progetto di territorio si è inteso il cambiamento come il prodotto dell’attivazione consapevole e contestuale di alcuni fattori necessari ed indispensabili: una visione di futuro, un sistema di valori possibilmente condiviso, una volontà collettiva, delle direzioni operative a medio termine.
L’attenzione è rivolta al processo e alla sua condotta, anticipando le scelte e gli snodi decisionali, in modo da adattare il risultato al percorso condiviso di tutti gli attori coinvolti.
Per produrre senso la pianificazione strategica deve concentrarsi sulla qualità e l’eticità della governance, sulla capacità di attivare processi inclusivi che mobilitino risorse sociali di un territorio così come del disegno e l’output del risultato. Deve mettere in campo strumenti che consentano anche la progettazione dell’attesa, la possibilità di usi temporanei che non pregiudichino le destinazioni d’uso finali ma che ne arricchiscano di senso la prospettiva di trasformazione, la capacità di un territorio di interrogarsi sui bisogni e le visioni di sviluppo e di scommettere collettivamente.
Una nuova stagione potrà aprirsi quando riusciremo ad ibridare in modo fertile i saperi della pianificazione con quelli della rigenerazione dei territori, mescolando il disegno e la morfologia dei luoghi con quella che F. Leger chiama “la polvere delle strade”