Lettera aperta alle compagne femministe. Del velo, del corpo, della libertà
pubblicato su Gli Stati Generali – 19 agosto 2016
Care compagne,
vi chiamo così perché me lo avete insegnato voi. La mia generazione deve alle sorelle maggiori, alle madri la consapevolezza di se’ che – pur incompiuta – noi ragazze del terzo millennio ci portiamo addosso. Vi dobbiamo gli anni ’70 – noi eravamo troppo piccole per avere qualche voce. Vi dobbiamo il diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la 194, i concorsi in magistratura, la libertà di essere come siamo. La minigonna ma anche i maglioni informi con cui coprirci i fianchi che ci mettevano in imbarazzo. Il corpo come luogo di libertà. Nudo o coperto. E’ a voi che dobbiamo l’apertura di strade che poi abbiamo percorso pur con mille accidenti e fatiche.
Ci avete insegnato la “soggettivazione della politica” – così dicevate anche se noi non vi capivamo troppo. Vale a dire, ci avete insegnato e avete preteso che le donne prendessero parola, irrompessero nel discorso pubblico come soggetti, capaci di pensiero, di scelta e di opinione. Avete rifiutato il paternalismo che decideva per noi, che parlava a nome nostro imponendo costumi, ruoli, scelte di vita.
“Io sono mia”, non proprietà di nessuno – ne’ di un padre ne’ di un marito, ne’ di una società che parla per noi.
Abbiamo imparato, anche da voi, che l’emancipazione passa dall’accesso all’istruzione, dai processi di liberazione, dalle pari opportunità, dalla libertà economica, dall’autonomia delle scelte. Passa dalla possibilità di parlare e di pretendere rispetto. Passa dall’educazione della società, e non dall’imposizione per legge di codici di comportamento. Non avete lottato per impedire alle nostre nonne di vestire il lutto stretto per tutta vita, ma per consentire alle nostre madri e a noi di non portarlo, se non lo vogliamo.
Ora, negli anni ’20 del terzo millennio, ci troviamo di fronte a questioni inedite, che mettono in discussione percorsi consolidati e, anche, un po’ stanchi e frusti. Viviamo tempi complessi e globali. Il corpo delle donne continua ad essere il campo di battaglia del potere – in modo terrificante, giuridicamente discriminatorio, violento in molte parti del mondo – in modo subdolo qui, a casa nostra.
E’ proprio di casa nostra che vi voglio parlare. Non di Turchia, Pakistan, Arabia Saudita. Vi voglio parlare di Italia, Europa. 2016.
A casa nostra, qui, oggi crescono giovani donne che, in nome della libertà che voi avete conquistato per noi – rivendicano il diritto di coprire il loro corpo. Parlano ma non sono ascoltate. Raccontano ma non hanno parola. Spiegano la loro visione delle cose ma si nega la loro capacità di autorappresentarsi. Vengono giudicate come oppresse, ma si impedisce loro di non essere oppresse negandogli la parola. Anche voi, care compagne.
Queste giovani donne si chiamano Amina, Fatima, Jasmina. Rivendicano il loro essere italiane, cresciute in un contesto sociale di pari opportunità. Diverse dalle loro madri perché cresciute accanto alle nostre figlie, compagne di scuola dei nostri figli. Ragazze che vanno alle pizzate con i compagni, in gita, che si innamorano, studiano, escono, “portano il velo e ascoltano i Queen”, come titolava un bel libro di una di loro, Sumaya, un po’ di anni fa. Molte di loro scelgono di coprirsi il capo con il hijab. Altre no. Nella stessa famiglia ci sono sorelle velate ed altre no: difficile immaginare un’imposizione totale, non credete?
Certo che mette in crisi questa rivendicazione. Non posso negarlo: a me mette in crisi. Proprio per questo con queste giovani donne da anni discuto, parlo, mi confronto. Racconto loro il punto di vista delle conquiste delle donne: a loro non le racconta nessuno. Non la famiglia – spesso immersa nel disorientamento della prima generazione. Tanto meno la scuola o lo spazio pubblico dell’incontro, dove il loro velo le fa diventare – nonostante loro – fantasmi senza parola. Un pezzo di stoffa che rende invisibili, afone, oggetti di attenzione morbosa ed infastidita. Il contesto in cui vivono è questo, non la famiglia ne’ i paesi di origine dei genitori. Loro vivono qui, dove la loro scelta viene giudicata, disprezzata, osservata come “segno del pericolo e dell’invasione”.
Mette in crisi, certo. Anche sentirsi dire che la liberazione delle donne – qui a casa nostra – ha portato alla mercificazione del corpo, all’enfatizzazione del corpo delle donne come oggetto sessuale, immagine pubblicitaria per vendere automobili, mozzarelle, stracci per spolverare. Loro, questo vedono e questo giudicano, nella maggior parte dei casi. Rifiutano l’idea che essere libere sia essere nude e oggetto di desiderio maschile. Non conoscendo le premesse, fanno molta fatica a ritenere “giusta e desiderabile” la conclusione.
Certo che mette in crisi sentirsi dire “ma sei sicura che siete più libere e meno condizionate di noi”?
Sto parlando di Amina, Jasmina, Fatima: italiane con il velo. Non di donne afghane, saudite, pakistane, turche.
Bensì di giovani ragazze figlie di questo millennio complicato, cresciute in Europa patria dei diritti che, in nome di questi diritti, si sentono emarginate, giudicate, criminalizzate. Credete davvero sia questa la strada per accompagnare processi di emancipazione e di libertà? Dai centimetri di pelle ammessi o vietati per legge? Dal giudizio sferzante di chi ha lottato per la libertà delle donne, ed ora a quelle stesse donne dà la patente di “oppresse e sottomesse” senza nemmeno prendere in considerazione il loro punto di vista?
Non dovevamo soggettivare la politica? Aprire spazi in cui le voci – tutte e plurali – avessero la stessa dignità?
Care compagne, ci avete insegnato la “sorellanza”, quella dimensione di complicità e solidarietà che ci ha fatto sentire – tutte noi generazioni di mezzo – meno sole e più forti nell’affrontare i percorsi accidentati e ancora ineguali delle nostre vite. Riusciamo a riaprire spazi di sorellanza in cui Jasmina, Amina, Fatima si sentano a casa ed abbiano lo stesso diritto che hanno le nostre figlie di dire come la pensano? Anche se quello che dicono ci potrebbe risultare sgradevole o ci mettesse in crisi? Riusciamo, CON loro e non A NOME loro, a disegnare un nuovo perimetro di libertà che ci faccia sentire, tutte, capaci di affrontare le sfide immense che questi nostri tempi ci impongono?
Insieme, riusciamo a disegnare uno spazio di libertà in cui si vieta di vietare? Aiutando quelle donne che scelgono di non indossare il velo a non essere emarginate dai loro padri e mariti? Aiutando nello stesso tempo quelle donne che scelgono di indossarlo a non essere emarginate dal contesto sociale, lavorativo, professionale?
Riusciamo a rispettare la libertà delle donne? Costruendo con loro i perimetri e i limiti di un nuovo patto di convivenza e rispetto? Immaginando, forse, che queste nostre figlie e sorelle potranno essere quel ponte di libertà ed emancipazione con le oppresse del pianeta? Costruendo insieme a loro un nuovo spazio di accoglienza, diritti, libertà di scelta? Qui, in Europa?
Riusciamo, care compagne, a non assumere uno sguardo “maternalista “ uguale e contrario a quel paternalismo che bruciavate in piazza insieme ai reggiseni?