Cambiamento: comunità, politiche e politica – il mio intervento al festival di Rena
Al Terzo Festival delle Comunità del Cambiamento, organizzato da RENA il 7-9 ottobre a Base (MI), mi è stato chiesto di intervenire sul tema della relazione delle comunità del cambiamento con la politica. Ecco le mie riflessioni e il mio punto di vista
Ci ho messo tanti anni per arrivare a dirvi ciò che sto per dirvi.
Molti anni di rigenerazione urbana, di processi e metodologie pensate, studiate, applicate, progettate. Di successo e fallite.10 anni nelle istituzioni guardando il cielo e calpestando marciapiedi. Tentando – e qualche volta riuscendo- a costruire politiche pubbliche intorno al tema del cambiamento, urbano e sociale. 20 anni che mi hanno cambiato il pensiero, che mi hannoo fatto riflettere sul senso delle cose che facciamo.
Voglio dirvi che le comunità non esistono. Che le politiche fanno danni. Ve la dico così, e adesso provo a spiegarvelo.
Non esistono le comunità come luoghi ingenui di comunanza e di appartenenza – territoriale, politica, culturale, sociale.
Quelle che usiamo definire comunità sono una rappresentazione di qualcosa di molto più complesso e indicibile.
Sono un tentativo di semplificazione e un modo per uniformare il magma indistinto degli interessi, delle relazioni, delle percezioni, delle culture e dei saperi che in una società liquida si aggregano e di disaggregano.
Le comunità non esistono se sono dei punti che non si collegano in un disegno più complesso. Come il gioco della Settimana Enigmistica. Restano punti e non c’è alcuna figura sullo sfondo.
Perché quelle che tendiamo a chiamare comunità sono entità fragili, evanescenti, liquefatte. Esposte continuamente al rischio della dissoluzione.
O meglio: nel brulichio delle nostre città nascono comunità di interessi o comunità di saperi.
Aggregatori di simili, di pezzi, di frammenti.
Comunità intelligenti, quelle che si scambiano visioni, sapere, competenza, innovazione sociale.
Ecco: il tema che mi sta a cuore è capire se queste comunità sono cellule di resistenza o germi di cambiamento. Quale disegno sullo sfondo, quali linee di collegamento tra punti.
Questo, per me, è il tema. Tutto politico.
Le comunità di cui parliamo qui, oggi, sono cellule di resistenza, luoghi fisici ed immateriali dove scrivere il nuovo Decamerone mentre la peste avanza? Perchè, fuori, c’è la peste.
Oppure sono l’innesto per generare cambiamento, per diventare agenti di cambiamento? Per fermare l’epidemia, per immettere anticorpi in un tessuto sociale malato?
Perché intorno a queste comunità – che affrontano il moderno e la contemporaneità con intelligenza, pensiero, visione – c’è la linea di crescenza.
Intorno ad ogni comunità del cambiamento – intorno ad ogni punto – c’è la linea di crescenza. Queste comunità sono cellule intelligenti e totipotenti, ma stentano a sapere quale ruolo giocare dentro la linea di crescenza.
Io vi voglio parlare di questa. Ho scoperto pochi anni fa che esiste la linea di crescenza, perché mia figlia se l’è fratturata.
Le linee di crescenza sono quei tessuti molli che i bambini hanno alla fine delle ossa lunghe, cartilaginei e pronti a diventare ossa man mano che si allungano e crescono. Flessibili e delicati, perché se crescono male le ossa saranno storte.
Se si induriscono male, non si torna indietro: si rimane storti e da grandi si farà fatica a camminare.
Ecco, le città hanno una linea di crescenza: nelle periferie, nelle paure, nel furore contro i rifugiati, negli insediamenti dei Rom vicino alle case popolari, nella coesistenza faticosa e brutale di un mondo che precipita tutto sullo stesso marciapiede.
Le linee di crescenza sono i luoghi meticci, dello scontro e del cambiamento disordinato. È la città che puzza, che esprime contemporaneità difforme e fastidiosa. Sgradevole, faticosa.
Mentre le comunità intelligenti scrivono il Decamerone, c’è chi sta con gli scarponi chiodati nelle linee di crescenza.
Le violenta, continuamente. : le usa, le manipola, le enfatizza. C’è chi usa il dogma e non la logica, producendo micro-fratture continue che fanno crescere storte le ossa, le distorcono e le cristallizzano intorno alla paura, all’esclusione.
Ecco: io penso che il compito delle comunità del cambiamento sia – anche – politico: piano piano devono provare ad indurire la linea di crescenza cercando di riallineare i pianeti in una cosmogonia che rimetta al centro l’umanità, la sostenibilità, i diritti. L’uguaglianza e l’inclusione. La democrazia delle opportunità.
Come mi disse l’ortopedico del Pronto Soccorso: le fratture nei tessuti molli – le linee di crescenza- sono da curare bene non per l’immediato, ma per come cresceranno. Le micro-fratture non fanno malissimo subito ma possono fare malissimo dopo, nel futuro.
Serve l’esperto (l’ortopedico), l’infermiera che benda, il negoziante che affitta le stampelle, la madre che porta lo zaino, i compagni che aiutano in classe, il vicino di casa che apre il portone… servono comunità di saperi e di disponibilità che rimettano in sesto le micro-fratture.
Per le città vale lo stesso: stare nella linea di crescenza significa allearsi, costruire senso, raccontarlo, pugnare, dare strumenti, offrire e costruire politiche che accompagnino i tessuti molli a diventare scheletri che sostengano questo corpo sociale malato.
Io sento questa urgenza. Molti di noi sentono questa urgenza. Gli argomenti li abbiamo.
Io ho scelto, in questa fase della mia vita, di ricominciare da qua cambiando prospettiva. Se ho sempre creduto – da ragazza del ‘900 quale sono – che fosse dovere della politica intercettare il cambiamento, ora penso che sia dovere del cambiamento intercettare la politica.
Se non cambiamo, anche, la politica, rischiamo di scrivere un nuovo Decamerone, qualcuno forse si salverà ma tutti moriremo di peste.