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IL MESTIERE DEL RIGENERATORE URBANO TRA SOTTOVALUTAZIONI E SPECIALIZZAZIONI

Pubblicato da Che-Fare – 4 novembre 2016

Provate a spiegare a vostro nonno che siete dei rigeneratori urbani. Provate a raccontarlo, provate a spiegarlo, a tavola, ai parenti incuriositi.

Vi dico come me la sono cavata io, ad un certo punto: “Nonno, fò lo stesso mestiere che faceva Obama a Chicago prima di diventare senatore e poi Presidente”. Lui mi rispose toscanamente “Vabbè, non ho capito uguale però Obama ha fatto un carrierone. Che Iddio te la mandi bona”.

Ecco, che Iddio ce la mandi bona, a fare  ’sto mestiere.

La fatica nel declinare le competenze e gli skills dei rigeneratori urbani è direttamente proporzionale all’ambiguità del termine che, nel dibattito pubblico italiano, lo usa indifferentemente per descrivere progetti di riqualificazione, trasformazioni urbanistiche, interventi hardware sulla morfologia fisica della città.

In realtà le pratiche più direttamente ascrivibili al tema della rigenerazione urbana sono quelle deriviate dal corpus metodologico e dalla riflessione comunitaria sulle città che –a partire dal Libro Verde sull’ambiente urbano del 1990[1] – hanno dato vita ad una serie di programmi che – dai PPU agli Urban e in ultimo al programma UIA – hanno indotto a livello locale un processo di apprendimento gestionale della complessità urbana e del suo governo.

O avrebbero dovuto, qui. Nel paese che ha inventato le città, che ha costruito un modello sociale e culturale di città non si è colto in pieno, e per tempo, il portato profondamente innovativo dell’intervento integrato, o olistico, della rigenerazione urbana nei nostri territori.

In questi 20 anni sono cresciute comunità di saperi che, nelle nostre città, hanno messo in campo policies e strumenti gestionali capaci di avviare processi di rigenerazione integrati, che superassero i limiti della settorialità disciplinare ed amministrativa. Si sono affinate le competenze sul campo a mani nude,  si sono prodotte best practices ma tra città da costruire e città da rigenerare e decostruire, non c’è stato incontro ne’ ibridazione.

I makers erano concentrati nel loro lavoro sui marciapiedi, i describers hanno usato categorie interpretative e disciplinari rigide. Lo spazio di mezzo è quel confine fecondo che potrebbe costringere ad una revisione degli strumenti amministrativi, dei percorsi di formazione accademica e del modo con cui si affronta il tema delle periferie e dell’intervento sulle città.

Ha prevalso una visione strutturalista, architettonica ed urbanistica sul cambiamento urbano. Ci si è concentrati sugli strumenti normativi – la legge urbanistica, le norme – anche perché non c’è stato dibattito condiviso sulla visione delle trasformazioni, sul senso, l’idea, la governance, il genius loci dei luoghi, le loro funzioni e rappresentazioni morfologiche, i modelli di sviluppo locale e i bisogni sociali, culturali, politici  di un territorio.  Ancora si parla di “progetto di trasformazione” e “accompagnamento sociale”, come se fossero due elementi distinti, uno esornativo all’altro, di complemento. Alla cui correlazione  si attribuisce importanza relativa.

Di conseguenza, anche il mestiere del rigeneratore è schiacciato tra il disegno del progetto – con le sue pratiche disciplinari e amministrative – e l’animatore sociale. Mentre gli uni disegnano gli spazi, gli altri fanno giocare i bambini. In mezzo, se c’è tempo, ci si ficca un po’ di progettazione partecipata. I post-it impazzano, i bambini crescono, gli esiti non sempre sono quelli che ci si aspetta.

Vorrei provare, quindi, ad affrontare un tema che spesso viene del tutto sottovalutato quando si parla di rigenerazione urbana: quello della governance, dell’architettura gestionale dei processi complessi, e conseguentemente degli skills necessari alle equipe di progetto per affrontarne day-by-day la loro implementazione.

E’ un tema sottovalutato nonostante il fatto che la progettazione comunitaria attribuisca alla qualità dell’architettura gestionale uno dei requisiti fondamentali per la affermare la credibilità di un programma di rigenerazione e ritenga che non meno del 10% del costo totale debba essere attribuito al suo management.

Infatti i  progetti complessi – di natura sociale, urbanistica e culturale – devono essere declinabili in termini di processi dinamici, condivisi, coerenti. Duraturi nel tempo, flessibili e adattabili al cambiamento dei contesti sociali e politici dei territori in cui si interviene. Devono prevedere  visione strategica a medio-lungo termine e capacità operative quotidiane.

E’ quindi evidente che l’architettura ed il design degli assetti istituzionali e dei loro modelli organizzativi rappresentano uno degli elementi di  successo di una strategia di rigenerazione urbana.

La complessità, per non essere una somma di azioni distinte e settoriali che interagiscono soltanto se osservate con uno sguardo dall’alto, deve essere strutturata ed organizzata in modo da garantire:

  1. l’autonomia: la definizione di un assetto istituzionale che garantisca partecipazione al processo decisionale da parte di tutti i soggetti – istituzionali e non – che contribuiscono alla sua realizzazione. La partnership, per essere efficace, deve essere strutturata ed organizzata e dare vita ad un soggetto capace di agire in modo flessibile e di definire le sue politiche di sviluppo, in concerto con i soggetti promotori, ma seguendo un’agenda autonoma e definita di priorità.
  1. la stabilità e la coerenza: la promozione di un iniziativa complessa necessita di tempi e luoghi organizzati e condivisi, e deve poter contare su un sostegno stabile e permanente. Questo significa innanzitutto una stabilità nella mission, nella visione dello sviluppo dell’iniziativa, negli obiettivi, nella struttura organizzativa, nel sostegno da parte dei promotori.
  1. la cooperazione: i progetti devono essere in grado di sviluppare alleanze, di promuovere cooperazione e attività di networking sia a livello locale sia sovra-locale.

Questo significa privilegiare un approccio professionale nel modello organizzativo, definendo profili professionali ed ambiti gestionali capaci di promuovere ed interagire all’esterno

  1. la pertinenza:  I progetti devono essere in grado di riflettere ed interpretare l’attualità e la diversità della comunità locale, svolgendo un ruolo dinamico ed aperto sul territorio. Questo implica che l’assetto istituzionale, ma ancora di più il modello organizzativo, siano in costante relazione con il territorio, promuovendo partecipazione e sostegno diffuso

Esistono numerose esperienze, anche in Italia, che hanno affrontato il nodo dell’assetto organizzativo autonomo e che hanno previsto la strutturazione del partenariato pubblico e privato utilizzando strumenti giuridici, generalmente di diritto privato (associazioni, comitati di scopo, consorzi, società miste, fondazioni, istituzioni ex legge 142/90 etc.).

Le più efficaci e durature nel tempo sono state quelle torinesi[2] nate per gestire programmi comunitari di rigenerazione urbana (Urban II,III – PPU), mutuate dalle esperienze francesi delle “Régie de Quartier (RQ)[3]” o i City Challenge anglosassoni

Se da un lato  è indispensabile prevedere, disegnare ed organizzare strumenti strutturati di governance  – come insegnano le esperienze europee più avanzate – altrettanto importante è definire le loro funzioni, le correlazioni che questi organismi hanno con la complessità degli attori – in primo luogo pubblici – che sono i promotori e registi primari di policies territoriali.

Per funzionare efficacemente l’architettura gestionale di un processo di rigenerazione urbana deve poter garantire

  1. un livello di rappresentanza e regia politico/istituzionale che integri le competenze istituzionali, condivida gli obiettivi strategici della rigenerazione a medio-lungo termine, sovraintenda e monitori il processo e rimuova i blocchi procedurali ed amministrativi, identifichi e faccia emergere i bisogni e le risorse delle comunità locali coinvolte, ricomponga gli interessi e i conflitti, approvi il programma di realizzazione, i suoi tempi  e la pianificazione finanziaria.
  1. Un livello manageriale ed operativo che assicuri l’implementazione delle priorità, le modalità operative, le risorse necessarie; che sia in grado di controllare lo svolgimento dei programmi, gestire il personale coinvolti, organizzare e ingegnerizzare le procedure e supportare i settori della Pubblica Amministrazione coinvolti nel raggiungimento degli obiettivi; deve saper predisporre e gestire  la pianificazione finanziaria; deve saper informare, gestire i rapporti di prossimità e la relazione con il territorio.

Si tratta di un’attività di ingegneria progettuale capace di accompagnare il montaggio e la realizzazione tecnica, finanziaria, amministrativa di un progetto complesso che ha a che fare con la carne viva della città, con i suoi conflitti, la sua cultura amministrativa e burocratica, la difformità degli interessi in gioco. Deve saper tenere insieme, su scala micro-territoriale, l’urbs e la civitas che si influenzano l’una con l’altra, che confliggono, che generano continuamente nuove strade di incontro e di scontro.

“La sua funzione è fare in modo che il progetto avanzi e non solo che si trasmetta – come in tutte le buone amministrazioni – da un livello all’altro in modo automatico

“ha il compito di coordinare, animare, dare impulso, dinamizzare, promuovere, comunicare, controllare l’esecuzione.

Si deve essere Direttore d’orchestra e non orchestrale; si deve saper far fare piuttosto che fare. Si deve essere  assemblatori di competenze e di operatori, al servizio di un progetto e di un quartiere”[4]

Per dirla con Claude Jacquier, sociologo urbano dell’Università di Grenoble e uno dei miei grandi maestri, occuparsi di rigenerazione urbana implica – tra le tante competenze – saper tendere alla propria inutilità.

Se non si affronta il tema delle competenze necessarie a fare questo mestiere – e non si predispongono percorsi multidisciplinari  che escano fuori dai recinti delle competenze esclusivamente  tecniche,  il tema della rigenerazione urbana sarà sempre schiacciato tra disegno, procedura, accompagnamento, animazione sociale. E sarà un peccato. Soprattutto per tutte quelle comunità di saperi – e ce ne sono tante – che non sapranno come spiegare al nonno cosa fanno tutto il giorno

 

[1] http://www.ocs.polito.it/sostenibilita/dwd/20.pdf

 

[2] A Torino, a partire dal 1997 con il Comitato The Gate- Porta Palazzo (PPU) è stata utilizzata la figura giuridica dei  Comitati di Scopo ex art.39 del Codice Civile. La forma giuridica proposta ha avuto come vantaggio di essere agile, di perseguire uno scopo definito temporalmente, di non necessitare di patrimonio o fondo di dotazione, di non prevedere iter decisionali complessi. La giurisprudenza attribuisce ai Comitati di Scopo a maggioranza pubblica la possibilità di agire come stazioni appaltanti purché non deroghino alle procedure pubbliche.

 

[3] Le Règie de Quartiers (RC) sono Associazioni senza scopo di lucro che hanno l’obiettivo di migliorare la qualità della vita nei quartieri associando, oltre alle istituzioni pubbliche, le forme organizzate degli abitanti, gli attori economici, sociali e culturali del territorio. Sono strumenti utilizzati, in Francia ed in Belgio, da circa 20 anni, riconosciuti istituzionalmente e promotori di strategie di rigenerazione urbana su scala di quartiere.

[4] Pour une bonne conduit des projèts quartiers,  Caisse depôts et Prèts, France, 1997

 

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