Perchè le parole sono importanti? La faglia, l’Europa e la visione di società che sta dietro alle parole
Perché le parole sono importanti e bisogna pesarle con molta attenzione?
Perché siamo su una faglia, su una frattura inedita e profonda della crosta terrestre e basta pochissimo per sprofondare nel baratro dell’inciviltà, del conflitto permanente, dell’homo homini lupus, del Bellum omnium contra omnes.
Quando le istituzioni tutte – locali, nazionali, sovranazionali – stentano sempre più a garantire il patto sociale e quando la politica non riesce più ad interpretare i movimenti tellurici ma, anzi, li subisce o li accompagna, li usa e li forza, allora davvero il rischio è altissimo.
Nei movimenti di faglia non si salva nessuno: ne’ noi, ne’ gli altri. Si salvano i fortissimi, i poteri globali senza democrazia, senza contrappesi. A noi restano le guerriglie urbane, gli scontri, i muri, la paura. Diventiamo funzionali ad un nuovo patto sociale che ci esclude, tutti, perché non ha bisogno di noi. Ci usa, ma non ci comprende.
Qualcuno di noi sarà Hendrick, il bambino olandese del mito: metteremo il dito nella diga crepata, tentando di evitare il suo crollo. Altri si convinceranno che, stando da questa parte della diga, sono salvi ed al sicuro se soltanto si eliminasse l’acqua che spinge. E fingeranno di credere a chi gli promette che sarà eliminata l’acqua e non ricostruita la diga.
Pochi saranno coloro che, chiamando a raccolta le comunità intorno, proveranno a ricostruire la diga per mettere in salvo tutti, abbassando la furia degli elementi che spingono.
Credo che il compito lungimirante, visionario, altissimo delle classi dirigenti del campo progressista- politiche, culturali, sociali – oggi dovrebbe essere questo: chiamare a raccolta le comunità intorno, ridare significato alle parole, immaginare la società dei nostri figli e nipoti. Smetterla di giocare al continuo presente e chiedersi cosa succederà nel 2050. Quale welfare, quali diritti, quale interazione, quale spazio politico e democratico, quale lavoro e a quali condizioni. Quali istituzioni e quale economia, locale e globale. Agire, adesso, per ricostruire dopodomani.
Non uso la parola “sinistra” perché voglio tenere largo il campo: intendo coloro a cui interessa porsi il problema della qualità e della sostenibilità – sociale e ambientale – del cambiamento, della giustizia sociale come orizzonte, dell’uguaglianza come prospettiva. Quelli a cui interessa ricostruire la diga perché ritengono che tutti abbiano il diritto – e debbano avere l’opportunità – di non affogare. Tutti, indipendentemente dalla sorte che hanno avuto di nascere qui o altrove.
Perché, allora, le parole sono importanti? E perché pesarle con attenzione non è buonismo ma lungimiranza? Perché servono a noi, prima ancora che agli altri?
L’Europa riscopre i suoi confini e cerca di indurirli, di renderli invalicabili e respingenti. I confini di Fortress Europe e quelli interni: gli Stati Nazionali ripristinano quelle garitte e quelle frontiere di cui noi, cittadini d’Europa, avevamo festeggiato l’abbandono.
L’Europa del Terzo Millennio ha costruito la propria narrazione recente sulla caduta dei muri: il 9 novembre del 1989 sembrava finalmente possibile costruire quello spazio di integrazione politica, culturale e sociale immaginato a Ventotene. Integrazione tra Stati, Governi, Istituzioni ma soprattutto integrazione di cittadinanza, di valori comuni, di spazio di relazione e incontro.
Mentre la narrazione potente dell’integrazione europea diventava retorica istituzionale e politica, nella pancia del continente cominciavano a lavorare i germi dell’intolleranza, della paura, della diffidenza verso l’esterno, dei muri invisibili e sociali, del timore e della diseguaglianza.
“Per la seconda volta l’Europa è morta a Sarajevo”, disse il giornalista di Nuova Oslobodenje ritirando il Premio Sacharov al Parlamento Europeo, nel 1993.
Alcune parole – identità, comunità – sono diventate la clava brandita per scavare il solco tra “noi” e “loro”, quando gli altri sono tutti coloro che vengono percepiti come minaccia, invasione, barbarie. Anche gli altri dentro di noi, non soltanto quelli che arrivano ma quelli che ci sono, che nascono e vivono in questo spazio comune che è l’Europa. Dentro le nostre città, nei quartieri, nelle scuole, nei giardinetti: lo spazio dell’interazione cresce, ci mescola ma contemporaneamente si allarga la distanza e la diffidenza.
Gli altri ridotti a numeri, cifre, grafici: tanti, laceri, privi di identità, individualità e storia. Noi: i minacciati, gli invasi, quelli dall’identità culturale così fragile da non riuscire a difenderla, promuoverla, valorizzarla.
In questo solco le parole diventano armi che giustificano la costruzione di nuovi muri: per difenderci dall’invasione non abbiamo altra scelta che mettere in salvo i nostri cari, il nostro patrimonio, la nostra cultura e – in ultimo – la nostra identità.
Parola importante, l’identità : identitāte, derivazione di ĭdem “la medesima cosa”… ma siamo davvero la medesima cosa, noi europei? Davvero la relazione con l’Altro ci fa sentire un ìdem, la medesima cosa? E, soprattutto, è davvero così fragile questa identità se non riesce ad includere, crescere, arricchirsi nella relazione con l’altro? Così come ha fatto nel corso dei millenni e dei secoli: la storia delle nostre comunità locali e del nostro continente è la stratificazione degli intrecci creati dallo scambio. Da sempre.
L’Identità europea, scriveva Paul Valery, se esiste si fonda su tre pilastri: la ragione, la giustizia e la carità. Tre pilastri intorno ai quali ci sono le mille identità, culture, sfumature, lingue, cibi, saperi, tradizioni, stili di vita che contraddistinguono la rete brulicante di vita che sono le nostre comunità locali, i nostri territori, le nostre città europee fatte di miscuglio, intreccio, incontro, diversità. Certo, anche conflitto e fatica: non c’è mai stata, nella storia dell’umanità, la pacificazione promessa e invocata. E’ un telos, un fine: ma ci si scazzotta, inevitabilmente.
A cosa sta rinunciando l’Europa in questa fase della sua storia? A cosa stiamo rinunciando noi, smarriti cittadini d’Europa?
Stiamo rinunciando alla ragione: perché non c’è emergenza se non nel modo con cui i Governi europei affrontano la crisi geopolitica e i flussi di rifugiati che tentano di mettersi in salvo. Modo strabico, attento più alla pancia delle opinioni pubbliche che alla ragione della lungimiranza politica e del governo di fenomeni complessi, certo, ma non imprevedibili e nemmeno evitabili. Il nostro tempo deve affrontare la sfida della globalizzazione, della diseguaglianza e del cambiamento: il contrario della parola integrazione è disintegrazione. Tertium non datur
Stiamo rinunciando alla giustizia: perché è dalla nostra storia europea che è nata l’universalità dei diritti umani. Sono state le nostre guerre e le nostre rivoluzioni, i nostri morti e i nostri rifugiati che hanno sancito che ogni uomo – ovunque sia nato e viva- è portatore di diritti inalienabili e assoluti: il diritto alla vita, prima di ogni cosa. Rinunciare alla giustizia e alla supremazia della legge significa aprire gli argini ad un fiume scomposto di ingiustizie. Per loro e per noi.
Stiamo, infine, rinunciando alla carità e alla grazia, alla caritas e al charis – parole che affondano la loro etimologia in quel mondo greco-romano che ci ha reso ciò che siamo. Nei furori della pancia dell’Europa, nei paesi e nelle comunità che reagiscono urlanti e spaventate all’arrivo di piccoli gruppi di uomini e donne che scappano dall’orrore si legge la rinuncia principale dell’Europa: il non saper riconoscersi, il non vedere in quei volti ed in quelle storie l’irrimediabilmente umano di ciascuno di noi, il non voler ricordare i nostri padri nella pancia del piroscafo, ammassati nelle miniere, in fuga dalle bombe e dai macelli del secolo breve.
Abbiamo bisogno di una nuova cultura – che è “ un regalo per il futuro”, come scrive Albert Camus e di un nuovo modo di leggere i fenomeni complessi che il nostro tempo ci costringe ad affrontare. Questo, soltanto se l’agire culturale e politico è capace di entrare nello spazio lacerato della società e innestare dei germi di senso e consapevolezza. Disegnando traiettorie che permettano di scollinare, portare lo sguardo più in là, oltre la siepe del presente.
E’ soltanto dall’incontro, dall’inclusione, dalla comprensione che i tre pilastri – ragione, giustizia e carità – potranno continuare ad essere piste per il futuro. Ed è su questi tre pilastri che noi, smarriti cittadini d’Europa, potremo ritrovare un senso e ricostruire il campo della politica
Dobbiamo lavorare per noi, ribaltando il punto di vista: abbattendo qualche muro per costruire qualche muretto. Dove sedersi, parlare e scoprire l’idem che ci tiene irrimediabilmente legati. Tutti. Nel bene e nel male.
Lo facciamo per noi, non per loro: con quell’egoismo altruista di cui parlava M.L King, cercando di salvare tutti salviamo noi stessi