Albert Camus: essere engagé. La cultura tra libertà, verità e menzogna
Albert Camus è stato un artista engagé. Coinvolto. Mai organico, anzi.
Figlio di universi culturali intrecciati e complessi, era un “uomo in rivolta” che affondava identità e radici in quelle che definiva le sue “patrie fondatrici”: l’Algeria coloniale, la Francia repubblicana, la Spagna a cui apparteneva la famiglia materna.
Ha preso parte: dalle lotte per l’indipendenza algerina alla Guerra di Spagna, all’antifascismo militante.
In conflitto con il Partito Comunista Francese, fu espulso proprio sulla questione araba e la sua critica all’impossibilità di uscire da una matrice europeista e marxista che negava le specificità culturali e l’autonomia delle colonie e delle sue nascenti classi dirigenti[1]. Punto essenziale, questo. Ancora oggi la Francia e la sinistra europea ne portano tracce. Soprattutto oggi, quando mancano alfabeti per capire ciò che sta succedendo nel nostro tempo, con l’affanno di non capire di chi sia figlio, questo nostro tempo. Di quali omissioni, bivi mancati sia frutto.
Albert Camus ha abitato il suo tempo, si è fatto abitare dal suo tempo. La sua arte, la sua scrittura, sono degli universali che si sono nutriti del suo essere engagé, dentro, coinvolto.
Nel 1957, tre anni prima di morire, ricevette il Premio Nobel della letteratura.
Riporto qui alcuni brani del discorso[2] che indirizzò all’Accademia svedese, in cui si legge il bisogno sofferto di concepire l’arte, la cultura, come ponte, filo che permetta di stare in mezzo, tra la bellezza necessaria e la comunità a cui si appartiene.
La cultura, l’arte, la parola come privilegio dell’artista di agire il cambiamento. Di dare voce al silenzio.
Camus usa le parole in modo preciso, rotondo, perfetto. Vale la pena leggerle e farle sedimentare.
“ Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti.
L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti.
L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale.
(…) l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare. (…)
La missione dello scrittore è fatta ad un tempo di difficili doveri; per definizione, non può mettersi oggi al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono.
O, in caso contrario, lo scrittore si ritrova solo e privo della sua arte. Tutti gli eserciti della tirannia con i loro milioni di uomini non lo strapperanno alla solitudine anche e soprattutto se si adatterà a tenere il loro passo.
Ma il silenzio di un prigioniero sconosciuto ed umiliato all’altro capo del mondo sarà sufficiente a trarre lo scrittore dal suo esilio, ogni volta, almeno, che arriverà, pur nei privilegi della libertà, a non dimenticare questo silenzio e a divulgarlo con i mezzi dell’arte.
Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della sua vita, ignorato o provvisoriamente celebre, imprigionato nella stretta della tirannia o per il momento libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà.
(…)
Per più di vent’anni di storia folle, perduto e privo di soccorso, come tutti gli uomini della mia età, nelle convulsioni del tempo, sono stato sorretto dal sentimento oscuro che scrivere era oggi un onore, perché questo atto impegnava, e non impegnava a scrivere soltanto.
Mi obbligava in particolare a portare, come potevo e secondo le mie forze, con tutti quelli che vivevano la stessa storia, la sventura e la speranza di cui eravamo partecipi.
(…) la maggior parte di noi, nel mio paese e in Europa, hanno rifiutato il nichilismo e si sono messi alla ricerca di una legittimità; hanno dovuto costruirsi un’arte per vivere in tempi calamitosi, per nascere una seconda volta e lottare poi a viso scoperto contro l’istinto di morte sempre presente nella nostra storia.
(…)
Davanti ad un mondo minacciato di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza.
(…)
La verità è misteriosa, sfuggente, sempre da conquistare. La libertà è pericolosa, dura da vivere quanto esaltante. Dobbiamo marciare verso questi due obiettivi, con fatica ma decisi, ben consci dei nostri errori in un così lungo cammino”
Sono parole sublimi, che raccontano di come l’essere engagé sia un dovere, una responsabilità prima ancora che una scelta. Come sia una ricerca di legittimità per ri-nascere e lottare a viso scoperto.
Sono parole che butto, come un sasso nello stagno, dentro la riflessione sul cambiamento, l’innovazione culturale e l’inclusione sociale prima che il mainstream le assorba dentro di se per sostituirle definitivamente con il linguaggio black&decker (cit[3].): quello che ci fa essere tutti un po’ materiale pubblicitario, strumenti esornativi e decorativi dei prodotti del nostro tempo.
Essere engagé significa, credo, aggiungere il sostanziale, ricercarlo con fatica, rompere i confini del tempo presente per immaginare il tempo futuro. Significa non confondere, mai, la techne con il logos.
Ecco, sento il bisogno di una cultura, un pensiero collettivo un po’ più engagé. En general. Che si interroghi sulla libertà, che cammini nel conflitto, che stia nei marciapiedi della contemporaneità senza rinunciare a guardare il cielo. “Ogni autentica creazione è un regalo per il futuro”: ecco, regaliamoci futuro.
Non come atto individuale ma come tensione che tenga insieme i pezzi, provando a farne un disegno, una visione, una com-partecipazione al nostro tempo.
Tutto qui
[1] Albert Camus, Réflexions sur la générosité, “l’Entente franco-musulmane”, 1939
[2] Il video della prolusione, in originale, di Albert Camus. 10 dicembre 1957. https://www.youtube.com/watch?v=M5QD-32
[3] Linguaggio Black&decker: così Domenico Carpanini, straordinario uomo politico torinese con cui ho calpestato marciapiedi discutendo di politica, definiva il nostro linguaggio da Project Management. Ne apprezzava l’ordine, ne criticava la retorica. Con lui ho imparato ad annusare la città di carne e la bellezza, tutta politica, dello stare in mezzo senza rinunciare al pensiero