Città di carne, città di pietra: la condanna di vivere tempi interessanti
Pubblicato In: Sentieri Inediti – riflessioni, dialoghi e nuovi orizzonti,
CambiaMenti, Sardegna Ricerche, ottobre 2019
“Siamo condannati a vivere tempi interessanti”, così un proverbio cinese indica le sfide che le nostre città sono condannate ad affrontare e con loro noi policy maker, comunità di pratiche, comunità di saperi, cittadini.
Questi tempi interessanti ci impongono il rigore, intanto, di dare nuovo significato alle parole svuotandole di una retorica ambigua che rischia di rendere sfocato l’indispensabile, il necessario, il pertinente. Rigenerazione urbana, comunità, identità: tra le tante, queste sono parole usurate da disambiguare in modo da ripensare profondamente l’idea stessa di città e, con essa, delle politiche e delle pratiche di cambiamento.
Questa condanna impone l’urgenza di cambiare i paradigmi concettuali, ripensando alle pratiche, alle politiche, all’idea stessa di città, di territori, di comunità e di diritti di cittadinanza.
Le nostre città, abitate da “corpi sociali in travaglio”, hanno bisogno di nuovi modelli interpretativi. Come racconta il geografo Franco Farinelli[1], la modernità – la prospettiva lineare del Portico degli Innocenti del Brunelleschi a Firenze, il capitalismo finanziario della Repubblica di Genova – nasce nelle città italiane: lo spazio, il territorio, la staticità delle istituzioni statuali, lo standard e la misura. Lì, afferma Farinelli, è nato il Made in Italy: l’esportazione di modelli immateriali che hanno permeato i secoli della modernità occidentale fino ad oggi.
Le nostre città hanno esportato modelli immateriali, concezioni del mondo.
Oggi, però, quei modelli non bastano più: serve ripensare, scavare nella crosta delle nostre città perché emerga un nuovo urbanesimo capace di ridare senso ai luoghi e riaffermare un inedito genius loci, “lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come quell'”opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare.” [2]
Un nuovo urbanesimo che ci consenta di parlare di città come corpo – fatto di carni, ossa, muscoli e neuroni specchio ammalati – e non soltanto come scheletro – insieme di infrastrutture rigide e fisiche. Corpo, città di carne che contiene, ma non si esaurisce, nella città di pietra.
Il primo termine da disambiguare è Rigenerazione Urbana, troppo spesso utilizzato come sinonimo di trasformazione, riqualificazione urbanistica, intervento sull’hardware della città di pietra.
Rigenerare -dal lat. regenerare, re– generare – significa ridare vita, generare nuovamente. In biologia il termine rimanda “all’ organismo animale o vegetale da rigenerare sia in seguito a lesioni o traumi sia come rinnovamento proprio del ciclo vitale dell’organismo”[3].
Le nostre città sono corpi, ecosistemi nei quali si rompono e si ricostruiscono continuamente equilibri, si frammentano i legami sociali, si acuiscono diseguaglianze culturali e sociali.
Abbiamo ereditato dal ‘900 città obsolete, fragili, disseminate di vuoti urbani, spazi senza funzione, patrimonio fisico senza prospettiva. L’URBS ammaccata e invecchiata fatica a contenere una CIVITAS disordinata, complessa, frammentata, molecolare, conflittuale, ineguale.
La perdita degli usi del ‘900 ha determinato un impoverimento delle pratiche sociali e culturali di riappropriazione dello spazio pubblico, schiacciato tra rendita fondiaria ed economica, istinti securitari, privatizzazione e chiusura dei luoghi pubblici su cui l’urbano ha fondato storicamente, almeno in Italia ed in Europa, il suo modello di società.
I policy maker agiscono in un contesto inedito dal punto di vista delle dinamiche sociali e produttive/ economiche, che stentano a riconoscere, ad intercettare e a sollecitarle perché spesso manca una visione d’insieme: la città come organismo, appunto. Non la somma dei suoi pezzi, non lo spazio lineare della modernità di cui parla Farinelli, bensì l’immaterialità della sfera che ha sempre lati nascosti, in ombra e imperscrutabili.
I policy maker agiscono con i vincoli della finanza pubblica che non consente slanci in avanti: la contrazione della spesa corrente, prima ancora di quella per gli investimenti, impone un’attenzione inedita alla qualità dei progetti di riqualificazione, al pensiero sulla gestione e la manutenzione ordinaria degli spazi pubblici, alla qualità delle relazioni sociali e comunitarie che ciascuno intervento produce. Impone una visione a medio-lungo termine delle trasformazioni/riqualificazioni che non si accontenti del rendering progettuale, ma si ponga il problema del dopo. Dell’eredità. Della Legacy, direbbero gli inglesi.
Ed è esattamente nella legacy – nella città che lasciamo o orientiamo quando interveniamo – che i processi di rifunzionalizzazione degli enormi vuoti urbani che il ‘900 ci ha caricato sulle spalle acquistano senso se capaci di accogliere e rivitalizzare questo corpo sociale in travaglio che sono le nostre città.
Un rinnovato urbanesimo deve generare la consapevolezza che la qualità della vita nelle città è direttamente proporzionale alla qualità degli spazi urbani, alla permeabilità, accessibilità e sostenibilità della loro infrastrutturazione sociale, alla capacità di rimettere in moto capitale economico partendo dal loro capitale sociale. Questo è possibile se nell’idea di rigenerazione degli spazi si pensa alla ricomposizione dei conflitti e delle s-connessioni, all’inclusione e alla coesione di tutti i pezzi che compongono la città. Se si rendono le città “porose”, come scrive Richard Sennet, capaci di far attraversare i confini e non costruire frontiere di segregazione.
“Le nostre, sono città congelate, sovradeterminate, sia nelle forme visive sia nelle funzioni sociali. (..) Avere a che fare con funzioni e spazi ambigui è complicato, me ne rendo conto. Ma è ciò che ci rende cittadini adulti”. Dobbiamo “trovare un’alternativa alle smart city, che sono sistemi chiusi, con funzioni, forme e usi tecnologici definiti. In confronto a una smart city, assolutamente determinata, un sistema aperto vuol dire maggiore contingenza, maggiore ambiguità, maggiore differenza, e dunque minore determinazione, prevedibilità, omogeneità e coerenza. Richiede ogni giorno molta capacità di interpretazione, perché implica il cambiamento».[4]
Il cambio di paradigma implica l’abbandono di un impianto deterministico e funzionalista della pianificazione urbana, sapendo che questo aumenta – certo – il rischio dell’imprevedibilità in un contesto meno normato – meno rassicurante nei suoi standard e nelle sue procedure. Sapendo tuttavia che può, nello stesso tempo, intercettare i pori e le energie delle nostre città. Questo è possibile se alla parola “rigenerazione urbana” associamo quella di responsabilità. Etica, politica, amministrativa ma, in ultima analisi, collettiva, civica.
Perché le pratiche rigenerative hanno la necessità, per avviarsi, di connettere gli attori istituzionali, quelli economici e sociali, le comunità di pratiche e di saperi che agiscono – nonostante loro – nell’arena urbana in modo spesso sconnesso, talvolta conflittuale, più spesso ignorandosi reciprocamente. Hanno bisogno di attori locali che si mettano in gioco e scommettano collettivamente su una strategia di futuro capace di mettere in rete risorse, competenze, saperi.
Come scriveva il Cardinal Martini parlando di Gerusalemme “non c’è più bisogno di una città ideale quanto, piuttosto, di un’idea di città”. [5]
Le pratiche rigenerative hanno bisogno di un innesco, di una scintilla che accenda processi di rigenerazione. Gli inneschi accendono fuochi non distruttivi se intorno hanno un ecosistema ricettivo e capace di ascoltare, orientare, connettere, costruire.
Qualcosa sta succedendo, anche nel nostro paese: i processi di rigenerazione di luoghi e di funzioni, in modo ancor carsico e precario– da Bologna a Milano, da Trento a Napoli, da Bari a Palermo o Messina ma anche in centri più piccoli – fanno emergere dei nuovi costruttori di società locale. Talvolta inconsapevolmente, più spesso dichiaratamente emersi nel solco di un civismo che agisce con forme inedite in un campo – quello della politica – riportando al centro l’agire, la prassi, la riappropriazione dei luoghi della città.
D’altronde – come scrive Chantal Mouffe “I confini tra la pura attività intellettuale, l’azione politica e il lavoro si sono ormai dissolti, e il lavoro post-fordista ha assorbito in sé molti tratti dell’azione politica. Questa trasformazione getta le basi per nuove forme di rapporti sociali, in cui la cultura ed il lavoro possono assumere nuove configurazioni.”[6]
Sono spesso processi innestati da “city maker” eterodossi rispetto alle logiche tradizionali della pianificazione, che superano l’obsoleto approccio interventista basato sulla “immediata cantierabilità” dei lavori pubblici, delle “opere” più o meno grandi, delle infrastrutturazioni più o meno pesanti. Spesso propongono e, quando ce la fanno, impongono una nuova generazione di interventi e di possibilità, caratterizzati da forti dosi di innovazione sociale nelle politiche abitative, nella mobilità, nell’organizzazione delle forme della produzione e del lavoro, nella co-gestione di servizi di welfare urbano.
Attivare, far crescere, creare le condizioni di innesco di questa latente «capacità di trasformazione urbana» è il ruolo che dovrebbero assumere le politiche e gli interventi di rigenerazione e trasformazione urbana di fronte alla complessità e alla problematicità del contesto attuale.
Incrementare e governare la «capacità di trasformazione urbana» significa evitare le scorciatoie un po’ rassicuranti che qualificano il design urbano, il segno architettonico, il ripristino della qualità edilizia e l’incremento della dotazione infrastrutturale come unica cura del male delle città, per confrontarsi invece seriamente e consapevolmente con la sostenibilità ambientale, l’innovazione sociale e la compatibilità economica della città e delle sue trasformazioni.
Rigenerare la città, quindi, come processo di riattivazione di tessuti lacerati. Per chi e per cosa agire, però? Quali sono le comunità a cui riferirsi, gli abitanti della città su cui e con cui attivare scintille e inneschi?
Entrano in gioco, come il termine rigenerazione – ambiguo e polisemico – altre parole hanno bisogno di essere disambiguate. Sono parole che sono diventate “calamite semantiche”: a seconda del significato che gli viene attribuito disegnano visioni di società tra loro antitetiche.
I termini comunità e identità, per esempio, in italiano si declinano nello stesso modo al plurale ed al singolare.
Quando sono singolari – la comunità, l’identità – diventano parole armate con le quali disegnare un dentro ed un fuori, un limes – che per metonimia significa frontiera fortificata, muro, confine – contrapposto al limen, soglia. Confine poroso, appunto. Da attraversare continuamente perché l’incontro con l’alterità – sociale e culturale – diventi nuova linfa e nuova relazione e quindi nuovo capitale sociale da investire nella città.
Identità e comunità – al plurale – devono essere disambiguate e riarticolate intorno ai luoghi, agli spazi porosi delle città che ancora ci sono anche se difformi e disordinati. E’ lì, nelle faglie telluriche di questi corpi sociali in travaglio abitanti dell’urbano che possiamo capire se riusciamo a disarmare queste parole perché ci consegnino un sentiero, una traiettoria di futuro. Esile, lieve, parziale. Ma che riesca, ancora una volta, ad andare oltre guardando più in là. Oltre i confini, oltre il limite. Oltre gli spazi angusti ed asfittici delle piccole patrie identitarie e rancorose. Creando soglie, limen da attraversare e non muri, confini sociali e fisici invalicabili.
Le nostre città sono abitate da tracce di comunità – plurali, conflittuali, globali o localissime – che hanno bisogno di processi generativi per riconoscersi come comunità di prossimità, in cui condividere il destino di abitare lo stesso spazio nello stesso tempo. Parlare di “comunità di prossimità” depotenzia il termine da quel portato salvifico quanto teleologico della comunità come Gemeinschaft di cui parlava Ferdinand Tònnies[7] contrapposta alla Gesellschaft, alla società dell’epoca moderna.
Nelle nostre città coesistono le une con le altre: costruire il perimetro della prossimità dentro il quale condividere interessi, percorsi, intrecci e diversità significa porsi il tema della convivenza, della coabitazione, della libertà di appartenenza e di attraversamento da una comunità all’altra, dei processi inclusivi e, in ultima analisi, della democrazia e della giustizia sociale.
Questo significa ricucire, rigenerare i tessuti di comunità che non si riconoscono, che confliggono e si ignorano. Significa identificare ed attivare le comunità di cura: quelle che abitano i luoghi dell’incontro, del riconoscimento, della responsabilità, della cura (pubblici, privati, intermedi, ibridi). Significa però fare i conti, entrare in relazione con quelle comunità del rancore o comunità Enclave: quelle “comunità chiuse dal localismo maligno dei tanti in preda alla paura di diventare ultimi che cercano il capro espiatorio quando la comunità si fa maledetta, alla ricerca dell’Heimat del sangue, del suolo e delle religioni”[8].
Significa allargare il perimetro della prossimità a chi abita la città ma è assente, laterale – perché non ne condivide il linguaggio o, semplicemente, non ha voce e parola per partecipare: gli stranieri, i nuovi cittadini, i giovani. Coloro che oggi, nell’arena urlante delle città impaurite, diventano oggetto di scontro tra la cura e il rancore e vengono privati di soggettività e protagonismo.
Questo è un agire profondamente politico a cui i rigeneratori – se intendono entrare nei corpi vivi della città di carne – non posso sottrarsi: non esistono esiti senza processi e non esiste téchne che possa sostituirsi al logos. Soprattutto oggi che abbiamo bisogno di affrontare i lati in ombra della sfera per capire come progettare futuro.
[1] Franco Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio, 2007
[2] Christian Norberg-Schulz, Genius loci. Paesaggio ambiente architettura, Electa, 1974
[3][3] Dizionario Treccani
[4] Richard Sennet, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, 2018
[5] Carlo Maria Martini, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, 2004
[6] Chantal Mouffe, Il conflitto democratico, Mimesis, 2015
[7] Ferdinand Tonnies, Comunità e Società, Laterza, ed.2011
[8] Aldo Bonomi, Sotto la pelle dello Stato – rancore, cura, operosità, Feltrinelli 2010