Da borghi a paesi: nuove comunità per riabitare le aree interne
Aree Interne e Comunità – Cronache dal Cuore dell’Italia
A cura del Collettivo PRINT, Pacini editore, 2022
Il mio contributo
Per le aree interne spesso si usano le stesse aggettivazioni che si usano per definire le periferie urbane: margini, estremi, fratture, vuoti, esterni. Marginali. Da riqualificare, urbanizzare, turisticizzare, valorizzare.
Le riflessioni sulla geografia umana del terzo millennio sono spesso simili, tengono insieme le urbanizzazioni frettolose del secolo scorso, le periferie, e le fragilità dei territori spopolati – le aree interne, utilizzando uno sguardo a volo d’uccello, dall’alto, consolatorio.
“(…) quando si parla di aree interne ciò che emerge è lo stato di emarginazione, di difficoltà, di fuga, di isolamento” (P. 41)
Spesso si propone un approccio allopatico, con il richiamo al medico chiamato a curare patologie. Le discipline mediche che più si avvicinano alla cura sono l’ortopedia e la chirurgia estetica: si parla di ossa, muri, vuoti abbandonati da riempire. Beni culturali e paesaggistici da trasformare per essere fruiti. I paesi diventano borghi, il paradigma della loro rinascita sta nello sguardo cittadino alla ricerca della vita autentica, delle comunità di un tempo, della musealizzazione iconografica del passato.
Nell’immaginario mainstream i borghi rinascono per noi che viviamo altrove, diventano la fuga temporanea dalla città. Però “Il turismo non può più essere l’unica ancora di salvezza, l’unico ossigeno che permette la vita sulle montagne. I territori non possono essere concepiti come l’ora d’aria di una città sempre più in espansione” (P31)
Lo schema è abbastanza consueto: si deve valorizzare la bellezza – culturale e paesaggistica- perché sia fruita e produca economia e quindi ripopolamento, con una sequenzialità deterministica che continua a rimettere in gioco gli stessi paradigmi culturali – un po’ fallimentari, per altro – che hanno segnato le politiche pubbliche italiane sulle periferie degli ultimi decenni. Ossa, muri, scheletro. Se nei paesi diventati borghi si tratta di rendere fruibile il patrimonio perché bello, nelle periferie si deve portare bellezza per compensare la loro marginalità e bruttezza. Con una strabica e quasi nulla attenzione ai processi, alle scintille che innestano cambiamento, alla fatica del tempo dell’innesco, ai fallimenti, alle conquiste. All’innovazione che si produce quando i processi occupano la carne, e non solo le ossa, dei luoghi.
Se non ribaltiamo questo paradigma deterministico e un po’ paternalista continueremo a parlare di ossa quando bisognerebbe auscultare la carne dei luoghi. Carne fatta di nomi, di storie di resilienza e coraggio, di fatiche e anche di fallimenti e conflitti. Continueremo a pensare in termini dicotomici, cristallizzati, fermi: città/borgo, interno/esterno. Nulla in mezzo, nessun pensiero di area vasta, di connessioni reticolari tra territori, tra geografie umane diverse, complementari, interconnesse. Non metteremo in moto dispositivi circolari, dinamici non solo in termini di infrastrutture, servizi, economie, ma anche in termini di sguardo, di comprensione. Che poi attiveranno il resto. Ma prima c’è lo sguardo di chi osserva: da quale altezza, da quale angolatura, da quale prospettiva.
La Strategia Nazionale delle Aree Interne ha aperto una stagione feconda di riflessioni, di policies, di comunità di saperi e di pratiche che si sono messe in gioco ed è stato un primo, importante tentativo di lettura territoriale interdipendente. Molti programmi nazionali, penso a quelli dell’Impresa Sociale Con I Bambini o di altre Fondazioni filantropiche, hanno individuato nel contrasto alle diseguaglianze anche geografiche e nell’accesso alle risorse educative uno degli strumenti per rigenerare le aree interne e stimolare risposte endogene e di prossimità al bisogno di servizi di qualità.
L’attenzione ai processi di governance condivisa è testimoniata dalla nascita, ancora larvale ma potente, di soggetti come le cooperative di comunità, le comunità energetiche che sfidano il paradigma economico allopatico e generano economia e produzione di valore sociale tentando nuove alleanze generazionali, politiche, geografiche, economiche.
“I paesi sono paesi. Non borghi. Costruire comunità non è rifare un borgo”, scrive il Presidente di UNCEM, Marco Bussone, a proposito della retorica post-pandemica della fuga dalle città e degli interventi PNRR del Bando “Attrattività dei Borghi” che si è chiuso il 15 marzo 2022 lasciando perplessi sindaci di piccolissimi comuni, progettisti, comunità locali che si sono sentiti espropriati da una visione “allopatica” per la cura delle diseguaglianze territoriali.
Eppure ci sono gli strumenti, ci sono le storie, ci sono i processi e le comunità di pratiche che stanno sperimentando nuove geografie territoriali, sociali, culturali. Esiste anche una letteratura che ci aiuta ad andare oltre la visione iconografica dei Borghi come paradisi artificiali delle nuove comunità come una volta.
I racconti di questo volume testimoniano la ricchezza e la fatica dei processi: sono storie di persone, di passioni, di competenze, di tempi che maturano lentamente. Di rischio e coraggio.
“L’originalità delle iniziative mostra come le aree interne abbiano una complessità di risorse che è fertile, ricca, potente, confermando l’efficacia degli approcci place-based. Il punto è come innescare le potenzialità delle risorse e far sì che queste continuino” (P.23)
Leggere questi racconti è utile perché aiuta a ribaltare lo sguardo sui margini e permette di leggere in filigrana ciò che sta succedendo negli interstizi dei territori, permette di dotarsi di una bussola che orienta nel capire se non si stiano, per caso, ridefinendo i paradigmi di uno sviluppo economico e territoriale post-novecentesco, centrato sui commons, su una rinnovata idea di mutualismo, sulla sostenibilità e resilienza. Se non si stia affermando, lentamente, una nuova centralità dei margini che producono contemporaneità perché individuano modelli di socialità, di economia, di produzione culturale che possono diventare nuovi paradigmi. Forse.
Comunque, vale la pena indagare e comprendere quanto sia superata l’idea del margine come scarto, come assenza. Provando a capire se in queste pratiche di resilienza non ci sia, in realtà, una nuova centralità del margine che può indicare una strada. Una traiettoria, un’inversione di rotta.
“Se invece di immaginare la dorsale appenninica come un territorio marginale, la immaginassimo come un collegamento tra l’est e l’ovest del Paese, recuperando anche il valore che nel passato questi territori hanno avuto come collegamento e crocevia tra i due mari? Cambiando l’approccio alla narrativa su queste aree, potrebbe cambiare anche il racconto che se ne fa (…) (p73)
Ogni luogo sedimenta storie, intrecci, atmosfere, desideri, conflitti, culture. Nei paesi spopolati i vuoti sono assenza di pieni. Sono storie portate via, sono storie che non si sono ancora raccontate. Nei luoghi “ai margini” non c’è vuoto, c’è assenza. Accostarsi alla loro biodiversità con rispetto, attenzione e sensibilità significa donare la parola del racconto e svelare nuove forme di abitazione dell’umano.
Kypling scriveva che per raccogliere storie bisogna mettere l’orecchio al suolo tutte le notti. Ascoltare le vibrazioni, entrare con rispetto nelle vite degli altri. E nelle aree interne, così come nelle periferie, le vite degli altri ci sono eccome.
E’ un compito profondamente politico quello a cui siamo chiamati: non esistono esiti senza processi e non esiste téchne che possa sostituirsi al logos. Soprattutto oggi che abbiamo bisogno di affrontare i lati in ombra della sfera per capire come progettare futuro.